Il 2 novembre la Chiesa celebra la commemorazione dei fedeli defunti e chiede suffragi per le anime purganti. Cosa significa questo?

C’è una frase della Scrittura che, più di ogni trattato, illumina il mistero del purgatorio:

«Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio» (Sap 3,1).

Là, nelle mani, non nelle attese.

Nelle mani, non nelle paure.

Nelle mani, non in un corridoio di pena.

La Chiesa non annuncia un Dio che salva con fredde procedure, ma un Padre che accompagna fino in fondo, senza fretta, senza violenza, senza lasciar nulla di incompiuto in chi ha scelto l’amore. Il purgatorio nasce da qui: non da un Dio che punisce, ma da un Dio che rifinisce, custodisce, completa.

Non un “dopo” punitivo, ma l’intimità che trasfigura

Il Catechismo parla con sobrietà: «Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio, ma imperfettamente purificati… subiscono una purificazione» (CCC 1030).

Vuol dire che la salvezza è certa. Il purgatorio non è un esame, è la guarigione delle ferite dell’amore. Non è lo spazio della paura, è la stanza in cui Dio ci rende finalmente capaci di amarlo come siamo stati creati per farlo.

San Giovanni Paolo II lo spiegava con limpidezza: non luogo, ma condizione dell’anima. Benedetto XVI aggiungeva il cuore di tutto:

«Il fuoco che brucia e salva è Cristo stesso» (Spe salvi, 47).

Incontro, non istituto penale. Fuoco, sì — ma fuoco di sguardo, non di carbone. Luce che svela, non fiamma che tormenta.

Quando vedremo l’Amore, rimarremo feriti di desiderio

Santa Caterina da Genova — forse la teologa più luminosa su questo mistero — diceva che l’anima, vedendo la perfezione dell’Amore di Dio, prova dolore solo perché non ha amato abbastanza. Non condanna esterna: nostalgia di ciò per cui siamo nati.

È la ferita bella del cielo che si avvicina.

È la sete di chi ha visto la sorgente.

C’è un’immagine che aiuta: quella del sogno che ricompone.

Nei sogni, spesso, ritorniamo dove abbiamo lasciato incompiuto: un volto, una parola, una carezza mancata. Nel sogno, ciò che era sospeso trova continuità.

Così il purgatorio:

Dio ci ridà la nostra storia, e la porta alla verità.

Non dimentichiamo nulla: tutto verrà illuminato

Il purgatorio non cancella la vita: la illumina.

Ogni gesto buono, ogni dolore offerto, ogni ferita subita, sarà consegnato alla luce, non all’oblio.

Agostino lo aveva compreso:

«Non tutti i defunti sono tali da non aver bisogno delle preghiere,
né tutti sono così cattivi da non trarne beneficio»

(Enchiridion, 110)

La comunione dei santi non è poesia devota.

È circolazione reale di amore.

Quando preghiamo per i defunti, non “aiutiamo Dio”: entriamo nel suo cuore che porta a compimento ciò che ha iniziato. Nessuno entra in Paradiso senza essere accompagnato. La salvezza è relazione, non solitudine.

Il purgatorio è la Pasqua che continua

Non c’è dualismo tra misericordia e verità.

La misericordia non chiude gli occhi: guarisce.

La verità non ferisce: libera.

Il purgatorio è dunque l’ultimo sacramento della misericordia.

Un battesimo di luce.

Una seconda camera nuziale, dove lo Sposo prepara la sposa.

E noi, che ancora camminiamo, sappiamo che i nostri morti ci sono vicini, purificati a misura di amore, e che noi possiamo offrire loro Messa, carità, perdono. Non per pagare conti, ma per tessere comunione.

Perché la morte non distrugge le relazioni: le trasfigura.

Che cosa ci attende, allora?

Il giudizio sarà l’incontro in cui finalmente non avremo paura di essere visti.

E il purgatorio sarà il tempo di fioritura dell’eternità, il momento in cui tutto ciò che era seme diventerà frutto.

Allora comprenderemo che non abbiamo vissuto invano, che ogni lacrima era attesa, che ogni bene, anche minimo, aveva radici eterne.

E ascolteremo forse parole così:

“Non temere.

Non sei in ritardo.

Lascia che il mio Amore finisca la tua opera.”

Allora sì, il purgatorio sarà un sogno più reale della veglia,

e ci sveglieremo interamente noi, finalmente capaci di amare chi ci ama da sempre.