La produzione e lo scambio dei beni, nella prospettiva giuridica ed etico-sociale qui assunta, non possono essere letti come un mero spazio neutro di interazioni di mercato, ma come una dimensione costitutiva della convivenza, nella quale si misura il grado di effettività del bene comune e della giustizia sociale. Il principio della destinazione universale dei beni – per cui i beni materiali sono, in ultima istanza, ordinati al vantaggio comune di tutta la famiglia umana – assume così una funzione propriamente normativa: esso non rimane sul piano dell’esortazione morale, ma chiede di essere tradotto in regole giuridiche, in politiche pubbliche e in prassi istituzionali capaci di promuovere una equa ripartizione delle risorse e delle opportunità, superando ogni forma di esclusione di individui o classi dalla partecipazione ai beni comuni. La giustizia sociale, in questo quadro, cessa di essere una categoria puramente descrittiva o retorica e diviene principio strutturante dell’intero ordine economico. Essa esige che, al di là della formale uguaglianza giuridica, si realizzi una effettiva parità nelle condizioni di accesso al lavoro, al credito, alla proprietà, alla formazione, in modo che ciascuno possa ricevere il “suo” secondo giustizia, non già in forza di privilegi precostituiti o di appartenenze corporative, ma in virtù della propria responsabilità e capacità di contribuire al bene comune.
Lungi dal limitarsi a correggere ex post le distorsioni del mercato, la giustizia sociale domanda un ordine economico nel quale i singoli e i gruppi siano messi in condizione di offrire tutto ciò che possono apportare alla comunità e di ottenere, in cambio, quanto è necessario a un armonico sviluppo delle energie personali nelle concrete condizioni di tempo e di luogo. In questa prospettiva, la produzione non è un fine in sé, né lo è lo scambio. Essi sono strumenti di una più ampia dinamica di sviluppo integrale, nella quale ciò che “conta” non è semplicemente “avere di più”, ma “essere di più”: l’economia è autenticamente umana solo quando contribuisce alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo, e quando i popoli stessi sono resi protagonisti della propria crescita, non semplici destinatari passivi di flussi di beni o di capitali. In tale orizzonte, la giustizia sociale si salda con la nozione di sviluppo solidale dell’umanità, che trascende i confini degli ordinamenti statali e si proietta immediatamente su scala internazionale. La figura giuridica della proprietà si colloca all’interno di questo orizzonte dinamico. La tradizione distingue con finezza tra proprietà privata e proprietà collettiva, riconoscendo che entrambe partecipano, in modi diversi, alla stessa destinazione universale dei beni. La proprietà privata – spettante alla persona, alla famiglia o a libere formazioni sociali – è radicata nel lavoro e nella responsabilità individuale; essa costituisce presidio dell’autonomia personale, spazio di libertà e luogo privilegiato di esercizio delle capacità creative. Proprio per questo, tuttavia, essa non può essere ridotta a una sfera assoluta e impermeabile al bene comune: la sua legittimità è inseparabile dall’adempimento di una funzione sociale, che si traduce nell’obbligo di non escludere altri dalla partecipazione ai beni comuni e di orientare l’uso dei beni in modo conforme alle esigenze della giustizia sociale. La proprietà collettiva – riconosciuta allo Stato e alle persone giuridiche di utilità pubblica, alle comunità intermedie, alle università, alle associazioni professionali – non è una mera eccezione al modello proprietario privato, ma una forma ordinaria attraverso cui l’ordinamento assicura la custodia e l’impiego di beni strutturalmente ordinati all’utilità generale, o che per loro natura richiedono una gestione condivisa e duratura. Anche qui, il profilo istituzionale si salda con il dato antropologico: l’uomo è, insieme, persona singolare e essere-in-relazione; per questo la proprietà non può essere pensata se non nella duplice dimensione personale e comunitaria. Particolarmente delicato è il tema della proprietà dei beni strumentali, ossia dei mezzi di produzione. Più la loro incidenza sulla vita collettiva è rilevante, più si accentua il loro rilievo sociale. In regime di effettiva concorrenza, si può presumere che l’interesse dei proprietari li spinga ad adempiere spontaneamente la propria funzione sociale; compito dell’autorità pubblica sarà allora, prevalentemente, quello di garantire il rispetto delle regole del gioco, prevenendo abusi, intese restrittive e concentrazioni lesive del mercato. Ma là dove la concorrenza viene meno, dove si consolidano posizioni dominanti o monopoli di fatto, l’intervento pubblico non è più solo legittimo: diviene spesso necessario affinché l’uso dei beni strumentali non venga orientato contro il bene comune, a danno in particolare dei lavoratori e dei consumatori più vulnerabili. Qui si coglie una prima convergenza con la riflessione contemporanea sui limiti di un’“apertura al mondo” puramente finanziaria, che globalizza i mercati ma frammenta le società, rendendo più forti i forti e più esposte le periferie economiche e sociali. La messa in discussione delle forme esasperate di concentrazione della ricchezza, e dei dispositivi giuridico-finanziari che consentono a pochi di controllare grandi masse di beni con un apporto minimo di capitale proprio, risponde alla stessa esigenza: ristabilire una relazione giusta e responsabile tra chi detiene il potere economico e la comunità da cui quel potere trae origine.
La funzione sociale della proprietà
La funzione sociale della proprietà costituita con capitali di terzi – si pensi a banche, fondi, grandi gruppi societari – esige dunque forme adeguate di vigilanza, di accountability e, se necessario, di intervento correttivo da parte della comunità politica. Non si tratta, con ciò, di demonizzare la grande impresa o di idealizzare un modello puramente atomistico di economia. In questo orizzonte, la cooperazione assume un rilievo che va ben oltre la mera tecnica organizzativa. Le forme cooperative, tanto nella produzione quanto nella distribuzione dei beni di consumo, sono strumenti con cui i soggetti si sottraggono alla logica meramente individualistica dello scambio, per darsi regole condivise ispirate a criteri di equità, trasparenza e mutuo vantaggio. Esse si collocano in quella “logica del dono” e della sovrabbondanza che, nella riflessione filosofico-giuridica ispirata a Paul Ricoeur, permette di oltrepassare la pura equivalenza contrattuale senza negarla, introducendo nello spazio giuridico un principio di gratuità che non è arbitrio ma riconoscimento dell’altro come prossimo. In tal senso, la cooperazione appare come un luogo privilegiato della politica del riconoscimento, nel quale la dignità dei soggetti non è definita solo dal loro potere di mercato, ma dalla loro partecipazione attiva alla costruzione di un ordine giusto. Il tema degli “eccessivi accentramenti di ricchezza” si lega direttamente a questa politica del riconoscimento. Là dove la concentrazione patrimoniale genera uno “strapotere di pochi”, si incrina il tessuto stesso della democrazia economica: la destinazione delle risorse naturali, degli strumenti tecnici e del risparmio collettivo finisce per essere determinata da interessi particolari, talora apertamente confliggenti con le esigenze di una equa distribuzione dei beni di consumo e con il diritto di tutti a un lavoro dignitoso. Le disuguaglianze non sono allora soltanto fattore di tensione sociale, ma anche espressione di una più profonda crisi di riconoscimento, che colpisce intere categorie di persone “scartate” dai processi di produzione e di scambio. In questo quadro, l’intervento pubblico volto a correggere arricchimenti indebiti, a disciplinare la trasmissione ereditaria dei grandi patrimoni, a prevenire pratiche speculative che prescindono da un adeguato e lecito lavoro, non va letto come compressione arbitraria della libertà economica, ma come esercizio responsabile della sovranità in vista del bene comune. La fiscalità, in particolare, assume una funzione non solo finanziaria ma strutturalmente ordinatrice: il tributo, nel ridistribuire risorse dalla sfera privata a quella pubblica, incide sulla configurazione stessa della vita economica, e deve pertanto essere concepito, oltre che secondo i principi di uguaglianza e generalità, come strumento di riequilibrio delle disparità e di promozione della solidarietà sociale. Ne consegue l’esigenza di sistemi tributari trasparenti, proporzionati, non vessatori, capaci di chiedere a ciascuno secondo le proprie possibilità e di assicurare, in corrispondenza, la fruizione di servizi pubblici essenziali, specialmente ai più fragili. Ma la giustizia sociale nel campo della produzione e dello scambio non si esaurisce nello spazio interno ai singoli ordinamenti. Riflettere sulla “comunità internazionale dei beni”, ponendo il commercio internazionale e i flussi migratori all’interno di un’unica visione: le risorse della terra, disegualmente distribuite, sono destinate a soddisfare i bisogni di tutta la famiglia umana; da ciò deriva il diritto naturale degli uomini a partecipare, direttamente o mediante scambi, all’utilizzazione di tutti i beni della terra, e, correlativamente, un diritto-dovere di solidarietà per gli Stati, chiamati a ordinare la vita economica internazionale in forme che non riproducano all’infinito l’asimmetria tra “popoli della fame” e “popoli dell’opulenza”. Qui il discorso si innesta direttamente sulle analisi più recenti circa gli squilibri del sistema globale: mentre alcuni Paesi producono in eccedenza beni alimentari e dispongono di tecnologie avanzate, altri sono condannati a una cronica vulnerabilità economica, spesso legata a una struttura produttiva monoculturale e alla volatilità dei prezzi delle materie prime. Il commercio internazionale, se lasciato alla sola logica del profitto immediato, rischia di aggravare tali disparità, trasformandosi in uno strumento di colonizzazione economica e culturale, anziché di integrazione solidale. Per questo, il testo evoca la necessità di un “assetto giuridico” dell’economia internazionale, che riconosca la società naturale degli Stati e la traduca in una vera comunità di diritto, attraverso accordi, istituzioni e procedure capaci di vincolare le politiche economiche interne alla considerazione del bene comune universale. In tale prospettiva, gli accordi in materia di lavoro, credito e moneta, movimento dei capitali, utilizzo delle materie prime, scambio dei prodotti, comunicazioni e sostegno alle economie più arretrate non sono meri strumenti tecnici, ma luoghi nei quali si decide se l’interdipendenza sarà governata secondo criteri di giustizia o abbandonata alle sole forze del mercato. Il riferimento a Fratelli tutti è qui evidente: in un mondo segnato da “nuovi muri” e da nazionalismi aggressivi, la fraternità universale e l’amicizia sociale costituiscono il criterio con cui valutare la legittimità delle scelte economiche e politiche, e la misura in cui i diritti umani sono realmente riconosciuti come universali e indivisibili, non solo proclamati.
La visione internazionale
Il nesso tra commercio e migrazioni offre un’ulteriore chiave di lettura. Le restrizioni alla libertà di movimento delle persone e delle merci sono spesso due facce di una stessa logica: la tutela di interessi particolari, la difesa di privilegi consolidati, la paura dell’altro. Un’autentica concezione del bene comune – nazionale e internazionale – non può prescindere dal riconoscimento del naturale diritto di ogni uomo a cercare luoghi e condizioni in cui meglio possa esplicare la propria personalità, né dall’obbligo per gli Stati di coordinare le proprie politiche in modo da non trasformare le frontiere in spazi di esclusione, ma in soglie di incontro regolato e rispettoso. La tutela degli emigranti da parte del Paese di origine e l’impegno del Paese di destinazione a non riservare loro trattamenti deteriori rispetto ai cittadini sono, in questo senso, espressione concreta di quella “politica del riconoscimento” che pone al centro la dignità del soggetto, al di là di ogni appartenenza etnica o nazionale. In ultima analisi, la produzione e lo scambio, la proprietà e la sua funzione sociale, il commercio internazionale e i movimenti migratori, concorrono a disegnare un’unica grande scena: quella di una società di diritti fondata sul principio della reciprocità e della fraternità, nella quale la giustizia non si riduce alla regolazione dell’equivalenza tra prestazioni, ma tende a ricostruire continuamente il legame sociale infranto da ogni forma di violenza, di esclusione e di sfruttamento. In questa società, il diritto non è mero insieme di comandi, ma linguaggio del riconoscimento, nel quale l’altro – individuo, popolo, cultura – è percepito non come minaccia, ma come interlocutore e prossimo. È questa, in ultima istanza, la via giuridica e diplomatica per dare forma, nell’economia concreta della produzione e dello scambio, a quel sogno di “un’unica umanità” che le grandi encicliche sociali del nostro tempo hanno consegnato alla responsabilità delle istituzioni e dei popoli.
