La persona torna oggi al centro della riflessione giuridica come principio vivo, capace di orientare l’interpretazione e la costruzione dell’ordinamento. Lungo la storia, il suo significato si è trasformato, passando dalla visione sostanzialistica classica alla frammentazione moderna della soggettività. In questo percorso emerge la rilevanza del “terzo”, la cui presenza inaugura lo spazio della giustizia e impone un riconoscimento non più solo affettivo, ma istituzionale. La persona appare così non come figura astratta, bensì come realtà concreta, segnata da relazioni, responsabilità e vulnerabilità. La norma, pur nella sua universalità, è chiamata a misurarsi con la singolarità delle biografie umane. In questo equilibrio delicato prende forma un autentico governo della dignità, che valorizza il volto unico di ciascuno. La decisione giuridica diventa allora un esercizio di prudenza, capace di tenere insieme principio, equità e umanità.
La vicenda teorica del personalismo, spesso descritta come un “tramonto” o come l’esaurirsi storico di una stagione del pensiero, non esaurisce affatto la portata dogmatico-giuridica della categoria di persona, che anzi emerge oggi con rinnovata forza come luogo concettuale imprescindibile per rifondare la stessa nozione di soggettività giuridica. Il declino del personalismo in quanto “-ismo”, ossia come costruzione dottrinale rigidamente sistematica, ha avuto l’effetto paradossalmente fecondo di liberarne il nucleo più autentico: l’intuizione della persona come esistenza singolare, irriducibile all’astrazione dell’“uomo” generico e, nello stesso tempo, non riconducibile alla mera funzione di parte di un tutto anonimo, sia esso lo Stato, il mercato o una qualsivoglia struttura collettiva. La lunga elaborazione concettuale che, dalla riflessione classica sulla substantia umana, attraversa la grande sintesi teologica medioevale – con le tappe emblematiche della definizione boeziana di individua substantia rationalis naturæ e della riformulazione tomista della persona come subsistens distinctum intellectualis naturæ – ha progressivamente condotto a riconoscere nella persona non un semplice individuo appartenente ad una specie, ma un centro di imputazione di atti, responsabilità e relazioni, dotato di una dignità ontologica che precede e fonda l’attribuzione di diritti e doveri. Il passaggio, in alcuni autori, dalla categoria di substantia a quella di existentia segna, da questo punto di vista, un momento decisivo: la persona non è soltanto “qualcosa” da definire secondo tratti essenziali, ma “qualcuno” che si manifesta in atti, scelte, percorsi biografici concreti, in una storicità che non è semplice accidente ma forma dell’essere. In tal modo, il pensiero personalista – pur nelle sue differenze interne – ha offerto al giurista la possibilità di cogliere la persona non come presupposto neutro delle tecniche normative, bensì come criterio ordinante dell’intero discorso giuridico, che viene a misurarsi, in ultima analisi, sulla capacità di predisporre istituti e procedure rispettosi della singolarità irripetibile di ogni soggetto e, insieme, idonei a garantirne l’effettiva tutela nella trama complessa della vita sociale.
La Crisi Moderna della Soggettività e la Funzione Giuridica della “Terzietà”
La Modernità filosofica, a partire dalla frattura cartesiana tra res cogitans e res extensa, ha introdotto una profonda crisi nella percezione unitaria della persona, generando quelle forme di astrazione soggettivistica e di impersonale oggettivazione che hanno inciso in modo permanente sulla stessa architettura degli ordinamenti giuridici. Da un lato, la centralità del cogito ha favorito la costruzione di una soggettività ipertrofica, talora ridotta a puro principio formale di rappresentazione, sganciato dalla carne della storia e dalla concretezza delle relazioni; dall’altro lato, lo sviluppo di concezioni collettivistiche e funzionalistiche ha spesso dissolto la singolarità personale nel gioco di forze sistemiche, trattando l’essere umano come elemento intercambiabile di processi economici, politici o tecnici. In tale contesto, la persona rischia di essere simultaneamente inflazionata sul piano retorico e impoverita sul piano reale: si moltiplicano i richiami alla dignità e ai diritti, ma l’assetto effettivo delle istituzioni tende a configurare i soggetti come “casi” da amministrare, più che come centri di decisione responsabile. Il recupero novecentesco della dimensione relazionale e responsoriale della persona – con l’attenzione per l’alterità, per il volto dell’altro, per la “terzietà” che fonda la giuridicità stessa – ha rappresentato, a questo riguardo, una svolta decisiva. La relazione io–tu, nella quale l’amore e la sollecitudine rendono singolare, non esaurisce il campo dell’esperienza sociale: è proprio l’irrompere del “terzo”, di colui che non è immediatamente presente nella prossimità affettiva, ma che pure ha diritto ad essere riconosciuto come “qualcuno”, ad inaugurare lo spazio specifico del diritto. La giustizia, diversamente dall’amore, non si esercita esclusivamente in relazioni brevi e simmetriche, ma deve misurarsi con rapporti “lunghi”, mediati, spesso asimmetrici, in cui la reciprocità diretta non è assicurata. In questo orizzonte, le istituzioni giuridiche appaiono come strutture di riconoscimento organizzato della terzietà, chiamate a universalizzare ciò che nell’esperienza originaria si manifesta come esigenza etica concreta: la persona non può essere ridotta a funzione, né il suo valore può essere subordinato alla pura utilità sociale. Gli ordinamenti si trovano così a dover conciliare l’istanza universalistica dell’eguaglianza di tutti i soggetti con la singolarità delle situazioni, entro una logica deontica in cui la norma vale ut in pluribus ma non si identifica con una necessità astratta e impersonale; la decisione giusta, infatti, esige la presa in carico delle circostanze storiche e personali come elementi coessenziali al giudizio, non come semplici variabili esterne.
L’Ordinamento come Governo della Dignità: Singolarità, Responsabilità e Armonia Decisoria
In questo quadro, la categoria di persona assume una funzione ordinante di prim’ordine per la teoria e la prassi giuridica: essa consente di ripensare la soggettività non soltanto come titolarità formale di situazioni giuridiche attive e passive, ma come centro di imputazione di responsabilità, come luogo in cui si intrecciano libertà, vulnerabilità e relazioni. Il giurista chiamato ad operare in un contesto normativo complesso è tenuto, pertanto, a sviluppare una duplice competenza: da un lato, la piena padronanza della struttura della norma, dei suoi fondamenti assiologici e delle sue implicazioni sistematiche; dall’altro, la capacità di confrontarsi con la persona concreta, con la sua biografia, con la sua specifica collocazione sociale e culturale, riconoscendo che è sempre questa persona determinata, e non un generico “uomo”, a incontrare il diritto e a subirne o beneficiarne gli effetti. Ne deriva una tensione strutturale tra il referente formale dell’ordinamento – l’insieme dei soggetti considerati in astratto, come “terzi” intercambiabili – e il referente sostanziale della decisione – la persona storica che si presenta dinanzi alle istituzioni, che chiede tutela, che assume obblighi e che si vede attribuire conseguenze giuridiche. L’arte del decidere non consiste allora soltanto nell’applicare meccanicamente una premessa maggiore normativa ad una premessa minore fattuale, ma nel compiere una sintesi prudenziale che tenga conto della futuribilità dell’azione, della libertà del soggetto e della sua capacità di assumere il peso delle proprie scelte. Un ordinamento realmente “personalista” non è dunque quello che si limita ad invocare la persona nel preambolo delle proprie fonti, bensì quello che struttura i propri istituti – dalle forme di garanzia alle procedure decisionali, dalle responsabilità diffuse ai meccanismi di tutela – in modo tale che la singolarità non venga cancellata sotto il peso di categorie generali, ma ne risulti, per quanto possibile, valorizzata e protetta. Solo un simile ordinamento, capace di coniugare la forza universalizzante della giustizia con la delicatezza dell’ascolto della persona, può ambire ad attuare un autentico governo della dignità, nel quale ogni soggetto sia riconosciuto non soltanto come portatore astratto di diritti, ma come volto concreto a cui il diritto stesso deve rispondere, in una armonica coerenza tra principi e prassi, tra struttura normativa e umanità delle decisioni.
