Tra le gaffe sulla patrimoniale, il caso Brunetta e la bufera sul Garante della privacy dopo Report, la politica italiana mostra una deriva di arroganza e confusione comunicativa che mina la fiducia pubblica.

La scena pubblica italiana, negli ultimi giorni, sembra il palcoscenico di una commedia involontaria, dove ogni attore recita per sé e dimentica che il copione è comune. Da un lato, la retorica stantia sulla “patrimoniale” – usata come spauracchio dalla destra e come totem ideologico da una sinistra divisa – e, dall’altro, la scandalosa leggerezza con cui Renato Brunetta, presidente del Cnel, ha visto lievitare il proprio stipendio da 240 mila a 360 mila euro l’anno, poi frettolosamente ritirato dopo le polemiche.

Una retromarcia tardiva che non cancella l’imbarazzo: perché anche “solo” i 240 mila euro che continua a percepire restano una cifra sproporzionata rispetto alla funzione effettiva del Cnel, organo consultivo del Parlamento quasi mai determinante nelle decisioni politiche. Un “ente di rappresentanza economica e sociale” che produce pareri non vincolanti, relazioni che pochi leggono, e che negli anni è stato definito da molti – a partire da un referendum del 2016 che ne propose l’abolizione – un’istituzione simbolica più che operativa.

La destra al governo non riesce a gestire la parola “tasse” senza tradurla in allarme ideologico. Ogni ipotesi di riequilibrio fiscale diventa “esproprio”, ogni proposta di giustizia redistributiva si trasforma in “attacco ai risparmi degli italiani”. Eppure, il peso fiscale in Italia grava sempre sugli stessi: lavoratori dipendenti, pensionati e piccole imprese. Il ceto medio si consuma, mentre i grandi patrimoni e le rendite finanziarie scivolano tra le maglie di un sistema fiscale che nessuno osa toccare davvero.

La sinistra, dal canto suo, non riesce a spiegare la patrimoniale come misura di solidarietà, e non come punizione del successo economico. Manca una grammatica politica che sappia dire “redistribuzione” senza suonare come “vendetta sociale”. Così, lo spazio del dibattito viene occupato da chi urla di più, non da chi ragiona meglio.

E mentre si litiga sui decimali del PIL, si consuma qualcosa di più grave: un attacco alla credibilità delle istituzioni di garanzia. Il caso del Garante della privacy Agostino Ghiglia, che avrebbe incontrato Arianna Meloni, sorella della premier, poco prima della decisione di sanzionare Report, non è solo un dettaglio di cronaca. È un sintomo. Un segnale inquietante di quanto sottile sia la linea tra indipendenza e sudditanza.

Ghiglia nega di aver avuto contatti politici, ma il sospetto resta, e il sospetto, quando riguarda un’autorità di garanzia, è già un danno. Che il Garante vada a colloquio – o anche solo nei pressi – della sede di Fratelli d’Italia prima di una decisione su una trasmissione scomoda come quella di Sigfrido Ranucci, mina la percezione di autonomia dell’intero organismo.

In tutto questo, la libertà d’informazione diventa l’ultima frontiera da difendere. Report, con le sue inchieste scomode e a volte imperfette, è uno dei pochi spazi rimasti dove il potere politico ed economico può ancora essere messo in discussione. Se il Garante della privacy comincia a sembrare un controllore “a corrente alternata”, il rischio è che la censura arrivi non per legge, ma per osmosi istituzionale: una prudenza preventiva che svuota il giornalismo della sua funzione civile.

C’è un filo che unisce la retorica confusa sulla patrimoniale, lo stipendio gonfiato poi sgonfiato di Brunetta e la bufera su Report: la perdita del senso del limite. La politica e le istituzioni sembrano aver dimenticato che l’autorità si legittima solo se resta credibile, e che la trasparenza è l’unica moneta che non si svaluta.

Finché la destra continuerà a usare la paura come linguaggio e la sinistra si limiterà a reagire con indignazione intermittente, il Paese rimarrà sospeso in una perenne campagna elettorale, dove il rumore copre la sostanza e la propaganda vale più della verità.

In un’Italia così, anche la parola “giustizia” rischia di diventare, come la “patrimoniale”, una bandiera agitata a giorni alterni. E nel frattempo, chi cerca di raccontare il potere – come Ranucci – paga il prezzo di un sistema che non tollera chi lo guarda negli occhi.