Da Garibaldi al ponte, la Sicilia resta terra di conquista
Il 20 maggio 1860 Giuseppe Garibaldi entrava a Palermo. Non fu un ingresso trionfale, ma l’inizio di una lunga ambiguità. La spedizione dei Mille, celebrata dalla storiografia ufficiale come l’inizio dell’unificazione italiana, fu in realtà un patto tacito tra poteri forti. Le camicie rosse sbarcarono in Sicilia con l’appoggio di settori della borghesia, di potenze straniere e — come ammise lo stesso Cesare Abba — con la connivenza silenziosa delle reti criminali locali. La Sicilia non venne liberata: venne inglobata. Non fu data voce ai contadini, ai poveri, agli ultimi. E i loro sogni furono subito calpestati.
Dietro la leggenda risorgimentale si nascondeva un progetto politico che nulla aveva a che vedere con la giustizia sociale o l’autodeterminazione dei popoli. Palermo fu il prezzo per annettere la ricchezza agricola del Regno delle Due Sicilie, schiacciare ogni autonomia e costruire uno stato centralizzato che ha sempre guardato al Sud con sospetto e paternalismo. Un Mezzogiorno sacrificato al nord industriale, alla finanza torinese e, via via, alle logiche spartitorie di Roma.
Mafia e poteri: un’alleanza mai interrotta
Chi crede che la mafia sia nata per caso sbaglia. La mafia è figlia dell’unificazione. O, meglio, della non-equità dell’unificazione. Fin da allora, lo Stato si è spesso appoggiato a poteri locali opachi per controllare un territorio considerato “difficile”. E quando non ha collaborato, ha ignorato. Così sono cresciute le cosche, infiltrate nei municipi, negli appalti, nelle istituzioni. La Sicilia ha visto sgretolarsi ogni forma di giustizia sociale, mentre fiorivano impunità, sfruttamento, corruzione.
Non è un caso che nel 1943, durante lo sbarco anglo-americano, fu proprio la mafia a offrire supporto logistico all’esercito Usa. In cambio, ottenne legittimazione e spazio. Da allora, Cosa Nostra è diventata parte integrante dell’architettura del potere, dentro e fuori le istituzioni. Lo Stato — quello stesso Stato nato da Garibaldi — ha spesso voltato lo sguardo. E quando ha cercato di reagire, era troppo tardi. Lo hanno pagato magistrati, giornalisti, preti, giovani. Ma mai i veri burattinai.
Oggi il ponte, domani?
E oggi? Si parla ancora del ponte sullo Stretto come se fosse la panacea di tutti i mali. Ma un ponte senza giustizia è solo cemento sopra le disuguaglianze. È solo una grande opera che rischia di ingrassare gli appetiti delle mafie “nuove” — più silenziose, più educate, ma non meno pericolose — e di politici in cerca di voti facili.
Chi vive in Sicilia sa che non è il collegamento con la Calabria il problema. Il problema è l’assenza di lavoro, la dispersione scolastica, l’emigrazione forzata, la mancanza di trasporti pubblici, la sanità ridotta ai minimi. Che senso ha un ponte se poi un ragazzo di Mazara deve partire per fare il lavapiatti a Londra o dormire in un treno per andare a Palermo all’università? Che giustizia c’è in un’infrastruttura faraonica, se nei borghi dell’interno mancano i medici?
E soprattutto: a chi servirà davvero questo ponte? Ai siciliani? Ai pendolari? O ai grandi gruppi di costruzione, alle lobby degli affari, ai soliti “amici degli amici”? La risposta è nei cantieri, nei silenzi, nelle gare d’appalto.
Una Sicilia che non si arrende
Ma c’è anche un’altra Sicilia. Quella che resiste. La Sicilia dei contadini che lottano per la terra, delle mamme che combattono per una scuola dignitosa, dei parroci che denunciano la corruzione, dei migranti che con fatica si costruiscono una nuova vita. La Sicilia che sogna un ponte, sì, ma fatto di giustizia, cooperazione, solidarietà.
Oggi, 20 maggio, non è solo una data da ricordare. È un invito a rileggere la storia con occhi diversi. A smascherare le retoriche. A dire che l’unificazione non può dirsi compiuta finché un’intera regione è trattata come scarto. E che senza i Sud, nessun Nord potrà mai essere giusto.