In Costa d’Avorio si perpetua un governo sostenuto dalla Francia

Alassane Dramane Ouattara ha vinto. Ancora. Un uomo di ottantatré anni che guida un Paese in cui oltre la metà della popolazione non ha compiuto i trent’anni. Ha vinto con quasi il 90% dei voti, ma il vero dato è un altro: ha votato appena metà del Paese. Un popolo stanco, disilluso, che ha imparato a non credere più nella promessa di un cambiamento che non arriva mai.

La Costa d’Avorio ha vissuto elezioni tranquille, ma non libere. E in Africa, la pace senza libertà è una pace apparente, come il silenzio che segue la paura.

L’illusione della stabilità

Ouattara rappresenta la continuità.

È il volto rassicurante per i mercati, per la Francia, per chi teme il ritorno del caos del 2010.

Ma dietro la parola “stabilità” si nasconde un’ingiustizia più sottile: la riduzione della politica a ordine pubblico, la riduzione della speranza a controllo.

«Meglio un leader forte che un Paese instabile» dicono i diplomatici europei.

Ma la forza senza giustizia è soltanto paura organizzata.

Il Vangelo ci insegna che la pace è frutto della verità (Is 32,17).

E la verità, oggi, è che la democrazia ivoriana respira a fatica.

Ogni limite di mandato rimosso è un respiro tolto al popolo.

Ogni opposizione esclusa è un silenzio imposto alla coscienza collettiva.

La generazione che attende

La vera opposizione in Africa non è quella dei partiti, ma dei giovani.

Sono loro i profeti silenziosi di un continente che non vuole più vivere all’ombra dei “padri della nazione”.

In Costa d’Avorio, come in Camerun o in Uganda, la storia è bloccata da leader che hanno confuso la missione con la proprietà.

Ouattara, ex tecnocrate del Fondo Monetario Internazionale, ha portato il Paese alla crescita.

Ma una crescita che non diventa giustizia è solo una curva statistica.

Il Pil sale, ma la speranza scende.

E quando un popolo smette di sognare, l’anima di una nazione si ammala.

Come scriveva il profeta Amos, “guai a chi riduce il diritto in veleno e getta a terra la giustizia” (Am 5,7).

Il rischio è proprio questo: un potere che, in nome della stabilità, avvelena la libertà.


L’Africa del ricambi

La vittoria di Ouattara, più che una notizia, è uno specchio.

Mostra la fatica di un continente a rinnovarsi, la paura del cambiamento, l’abitudine al potere personale.

Il colonialismo oggi non è più esterno, ma interiorizzato:

sta in quella mentalità che preferisce l’obbedienza alla partecipazione, il capo al cittadino, il consenso alla coscienza.

Eppure, c’è un’Africa che cresce altrove — nelle università, nelle periferie urbane, nelle comunità cristiane — dove si costruisce una democrazia che non copia i modelli europei, ma nasce dal basso, dalla solidarietà, dal senso di comunità.

È lì che il Vangelo incontra la politica: nella vita quotidiana di chi si batte per la dignità, non per il potere.

Una lettura spirituale

Le elezioni in Costa d’Avorio ci ricordano una verità evangelica semplice e dura:

“A chi fu dato molto, molto sarà richiesto” (Lc 12,48).

A Ouattara, come a tanti altri leader africani, è stato dato molto: istruzione, potere, prestigio internazionale.

Ma il giudizio della storia — e di Dio — non si misura sui successi economici, bensì sulla giustizia e sulla fraternità lasciata in eredità.

Ogni mandato in più diventa un peso morale.

Ogni promessa mancata un debito verso i poveri.

Ogni elezione senza scelta, un peccato contro la libertà del popolo.

La Chiesa in Africa non può tacere davanti a questa lunga notte della democrazia.

Deve ricordare che governare è servire, non durare.

E che la politica, quando dimentica l’uomo, perde anche l’anima.

La speranza che resta

C’è tuttavia una forza che non si vota e non si cancella: la speranza.

La speranza africana, giovane, creativa, credente.

La speranza di chi costruisce scuole, di chi coltiva la terra, di chi prega e resiste.

Forse non vincerà alle elezioni, ma è lei a costruire il futuro.

Perché i mandati passano, ma la dignità resta.

E nel silenzio di un popolo che attende, Dio continua a scrivere la storia — con mani giovani, libere, e finalmente africane.