L’attacco in Qatar contro i leader del movimento islamista riapre le contraddizioni del passato: i fondi transitati da Doha con l’avallo israeliano. Leone XIV: “Situazione gravissima, dobbiamo pregare”. Cresce l’angoscia per la comunità cattolica di Gaza.

L’attacco di Israele a Doha, nel cuore del Qatar, contro esponenti di Hamas, segna un salto di qualità inquietante nel conflitto mediorientale. Non si tratta più solo di Gaza, di Cisgiordania o del Libano, ma di un Paese esterno al teatro diretto di guerra, che diventa improvvisamente bersaglio di una logica di colpi mirati senza frontiere.

La notizia ha raggiunto Leone XIV nella quiete di Castelgandolfo. Di fronte alle telecamere, il Papa non ha nascosto lo sgomento. Per la prima volta ha nominato esplicitamente Hamas: «In questi minuti ci sono notizie veramente gravi… Dobbiamo pregare». Parole sobrie, ma pesanti. Non solo perché segnano una discontinuità con la prassi del silenzio sui nomi dei gruppi armati, mantenuta anche dal suo predecessore Francesco, ma perché manifestano il senso di smarrimento di chi vede allargarsi la voragine della guerra.

Dietro l’attacco, però, riaffiora un dato storico che nessuno può ignorare: la contraddizione di rapporti ambigui, quando non compiacenti, tra Israele e Qatar. Per anni Doha è stata il canale privilegiato per finanziare Hamas, con l’avallo di Israele stesso, che così indeboliva il partito laico palestinese di Fatah e il governo dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania. Una strategia cinica, fondata sul “divide et impera”, che ha contribuito a consolidare proprio la forza di quel movimento islamista oggi considerato nemico esistenziale. Il passato torna a presentare il conto.

Leone XIV, uscendo dalla sua residenza estiva, ha mostrato un’altra preoccupazione: la sorte della piccola comunità cattolica di Gaza. Dopo il nuovo ordine di evacuazione dell’esercito israeliano, i cristiani della parrocchia latina rischiano di scomparire dall’enclave. «Ho cercato il parroco, non ho notizie» ha confidato il Papa. È il segno di una Chiesa che non ragiona in termini geopolitici ma di volti concreti, di fedeli senza difesa, di famiglie che rischiano di essere cancellate dal flusso delle armi e degli ordini militari.

La Santa Sede ha chiesto più volte un cessate il fuoco, il ritorno al tavolo dei negoziati e la prospettiva di “due popoli, due Stati”. È una posizione che oggi appare quasi ingenua, mentre le armi tracciano nuovi confini e il sangue cancella antichi villaggi. Eppure resta l’unica via percorribile, perché la spirale della violenza si autoalimenta e non lascia spazio a soluzioni imposte.

L’attacco a Doha è anche un monito alla comunità internazionale: la guerra non conosce più frontiere e rischia di incendiare un’intera regione. I cristiani, ridotti a minoranza sempre più fragile in Medio Oriente, ne pagano un prezzo altissimo, come ricordava Paolo VI già negli anni Sessanta. La loro scomparsa sarebbe una tragedia non solo per la Chiesa, ma per tutti: privare la Terra Santa della sua presenza cristiana significherebbe amputare la memoria stessa delle radici comuni.

Nella canonizzazione di Carlo Acutis e Pier Giorgio Frassati, Leone XIV ha ripetuto: «Dio non vuole la guerra, ma la pace». È la parola di un Papa che non ha strumenti militari né alleanze da mobilitare, ma ha la forza di ricordare a tutti che la storia non è condannata al destino delle bombe. In un Medio Oriente intrappolato tra errori del passato e aggressioni del presente, quella parola suona come l’unica bussola affidabile.