Una città simbolo tra le bombe e la memoria. Dove il mare non è solo strategia, ma civiltà.

«Odessa non è l’Ucraina, ma l’Ucraina è Odessa». È un detto popolare che ritorna con forza nei giorni in cui la città del Mar Nero, crocevia di popoli, lingue e commerci, torna a tremare sotto i bombardamenti russi. Un’intera notte di droni e missili ha colpito porti, stazioni ferroviarie, magazzini e quartieri civili. È l’ennesimo capitolo di una guerra che sembra non volersi fermare davanti a nulla: né alla vita quotidiana delle persone, né alla storia, né alla bellezza.

Ma Odessa non è una città qualsiasi. È l’ultima grande porta marittima ancora attiva dell’Ucraina sul Mar Nero, nodo strategico per l’economia, i rifornimenti, gli scambi. Ma è anche, e soprattutto, un luogo della memoria e dell’anima. Fondata nel Settecento, ma cresciuta nel cuore dell’Ottocento cosmopolita, Odessa ha raccolto voci greche, armene, ebraiche, slave, italiane. È la città dei romanzi di Babel e dei canti yiddish, delle icone ortodosse e dei caffè francesi, dei tramonti sul porto e delle barche cariche di storie.

E forse proprio questo fa paura. Una città così aperta non si conquista. Si può solo devastare. Non è un caso che l’attacco recente non abbia colpito obiettivi militari identificabili, ma abbia ferito la struttura stessa della città: il suo porto, il suo snodo ferroviario, il cuore della sua vita commerciale e civile.

In questo assedio si cela qualcosa di più profondo di una semplice offensiva: è la negazione del pluralismo, della convivenza, della differenza. Odessa, con le sue 133 nazionalità, è troppo viva per essere assimilata. Eppure, è proprio da questa molteplicità che emerge il suo legame con l’Ucraina: non per appartenenza etnica, ma per scelta di libertà.

Ma c’è anche un’altra Odessa, più nascosta, meno raccontata: quella spirituale. La città fu uno dei luoghi di passaggio per i pellegrini delle crociate. Ed è nota, in alcune fonti antiche, come possibile tappa nel misterioso viaggio della Sacra Sindone da Costantinopoli verso l’Occidente. È una leggenda? Forse. Ma dice qualcosa: Odessa è da secoli soglia tra Oriente e Occidente, tra la fede delle icone e quella della croce, tra il tempo e l’eterno.

Oggi tutto questo sembra in pericolo. Ma se c’è una lezione che Odessa insegna, è che le città fondate sull’incontro non muoiono sotto le bombe. Possono essere devastate, ma non cancellate. Possono essere colpite, ma non zittite. Perché chi è nato per il mare, per il dialogo, per la parola scambiata al mercato o sulla banchina, troverà sempre una via per restare umano.

La guerra in Ucraina continua a interrogare l’Europa. Non solo sulla solidarietà concreta, ma sul senso della sua cultura e della sua storia. Se Odessa cade, non perderemo solo un porto. Perderemo una possibilità di futuro condiviso. Ma se Odessa resiste, anche tra le sirene e le macerie, continuerà a dirci che esiste un’umanità che non si rassegna. Che il mare può ancora unire. E che la memoria è più forte del silenzio.