Giubileo 2025. Il 25 ottobre, tra i pellegrinaggi delle periferie umane e spirituali, anche i fedeli legati alla liturgia preconciliare hanno voluto vivere il loro momento di grazia. Dopo il pellegrinaggio dei fedeli LGBTQ+ di inizio settembre, anche i tradizionalisti – che osteggiavano quell’evento – hanno voluto un mese dopo vivere il loro momento di grazia. La Chiesa è una madre che abbraccia la pluralità dei suoi figli senza rinnegare l’unità nella pace e nella carità. Come ricordava Papa Francesco e oggi ribadisce Papa Leone XIV, la Chiesa è fatta di peccatori perdonati, non di perfetti contrapposti: Ecclesia ex gentibus, una comunità che si riconosce umile davanti a Dio e libera da ogni presunzione, anche liturgica. La parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18, 9-14) è molto eloquente in tutto questo con il loghion di Cristo stesso che alla fine recita: “chi si esalta sarà umiliato…”
«La liturgia è la prima teologia vissuta. Dove si rompe la comunione, anche la bellezza diventa ideologia.»
Una Chiesa senza polarizzazioni
Ogni volta che si parla di liturgia, riaffiora un riflesso di divisione. È accaduto anche in questi giorni, tra la Messa in rito antico celebrata dal cardinale Burke e i Vespri presieduti dal cardinale Zuppi: due eventi diversi, subito letti da alcuni come contrapposizione tra due visioni ecclesiali.
Ma la Chiesa non vive di polarità, bensì di comunione. Non ci sono due Chiese, una antica e una moderna: c’è una sola Chiesa che prega, l’unica Sposa di Cristo, che nella storia assume forme diverse di fedeltà all’unico mistero.
Papa Leone XIV, nel solco di Francesco e Benedetto XVI, ha ribadito che la questione liturgica non può essere ridotta a un conflitto di sensibilità. Traditionis custodes — e le successive precisazioni — non nascono per limitare, ma per tutelare l’unità della preghiera ecclesiale, evitando che il rito diventi bandiera di appartenenze contrapposte.
Le aperture di Benedetto XVI non erano restaurazione
Quando Benedetto XVI pubblicò Summorum Pontificum, volle offrire uno strumento pastorale per sanare ferite, non per riaprire fronti.
L’intento era di riconciliare, non di restaurare.
Il Papa emerito aveva ben chiaro che la liturgia è un organismo vivente, non un monumento da custodire in teca.
Ma nel tempo, quella apertura — nata come gesto di comunione — è stata fraintesa da alcuni come licenza di opposizione, trasformando la forma straordinaria in un linguaggio identitario e di resistenza.
In realtà, Benedetto XVI stesso invitava a leggere la riforma liturgica nella continuità viva della Tradizione, non come un passo indietro ma come sviluppo coerente del Concilio Vaticano II.
L’ermeneutica della riforma, non della rottura, resta la chiave per comprendere il suo pensiero e quello dei suoi successori.
Curare la nostalgia
La nostalgia, nella vita della Chiesa, è un sentimento da ascoltare ma anche da guarire.
Molti fedeli trovano nel rito antico un linguaggio che li ha nutriti spiritualmente, e questo merita rispetto. Ma quando la nostalgia diventa ideologia, essa non consola, ma divide.
È una malattia dello spirito che spinge a rifugiarsi nel passato, invece di lasciarsi rinnovare dal presente di Dio.
Come ricorda Desiderio desideravi (n. 31), abbandonare la riforma liturgica significa in realtà distaccarsi dalla Chiesa che il Concilio ha voluto edificare come popolo sacerdotale, in cui ogni battezzato partecipa attivamente al culto divino.
La riforma come conseguenza dell’ecclesiologia conciliare
La riforma liturgica del Vaticano II non è stata un’operazione estetica, ma una conversione ecclesiologica.
È la conseguenza diretta della Lumen gentium, che restituisce al Popolo di Dio il suo protagonismo orante.
Nella Sacrosanctum concilium (n. 14), il Concilio parla della “partecipazione piena, consapevole e attiva” come principio fondamentale della liturgia.
Non è una formula organizzativa, ma una dichiarazione teologica: il popolo che celebra è lo stesso che evangelizza e serve.
Per questo la riforma ha posto l’altare al centro, ha restituito la lingua viva della comunità, ha unito parola e gesto.
Non si tratta di “semplificare” la liturgia, ma di ricondurla alla sorgente del Mistero pasquale, al cuore della Chiesa che vive nel mondo e parla la lingua dei popoli.
Il rischio dell’estetismo e dell’esoterismo
Qualcuno è convinto ancora di poter restare con un piede nel Concilio e l’altro nel pre- o nell’anti-Concilio.
È un’illusione che confonde la fedeltà con la tolleranza e che, in nome di una falsa misericordia, finisce per neutralizzare la riforma.
Desiderio desideravi lo spiega bene: ciò di cui abbiamo bisogno non è il generico “senso del mistero”, ma lo stupore per il mistero pasquale che forma la fede e plasma la vita.
Lo stupore è dinamico, non nostalgico; apre, non chiude; converte, non conserva.
Quando la liturgia si stacca dalla comunione ecclesiale, cade in due opposti pericoli:
- nel caso migliore, in un estetismo raffinato, dove la forma prevale sul contenuto;
- nel caso peggiore, in un esoterismo elitario, dove il rito diventa linguaggio per pochi.
Il pensiero di René Guénon, che ha segnato alcuni ambienti tradizionalisti, è emblematico di questa deriva: un simbolismo sacro separato dalla Rivelazione, che finisce per costruire una gnosi liturgica.
Ma il cristianesimo non è una via iniziatica: è l’irruzione della grazia nella storia.
L’Eucaristia non è rito per “intenditori”, è pane per tutti.
La sobrietà come forma della verità
Il Concilio ha insegnato che la sobrietà è la forma teologica della bellezza.
La semplicità dei gesti, la chiarezza dei segni, la lingua comprensibile non sono povertà estetica, ma espressione del mistero incarnato.
La liturgia non è mai “nostra”: appartiene a Cristo e alla Chiesa.
Papa Leone XIV ha insistito su questo punto, ricordando che la Tradizione non è il passato che ritorna, ma la fedeltà allo Spirito che rinnova.
La riforma liturgica, come ogni riforma ecclesiale, non è una perdita, ma un dono: è il modo in cui la Chiesa diventa più se stessa.
La bellezza che evangelizza
Il futuro della Chiesa non si gioca tra due riti, ma tra due atteggiamenti: la nostalgia e la comunione.
La prima guarda indietro e teme; la seconda guarda avanti e confida.
L’unica vera “tradizione” è quella che trasmette la vita, non la conserva sotto vetro.
Non abbiamo bisogno di una gnosi liturgica che prometta purezza ai pochi, ma di una liturgia cattolica che renda Cristo presente ai molti.
Solo così la bellezza tornerà a evangelizzare, e la Chiesa potrà essere, nella sua semplicità e nella sua profondità, segno della libertà e della gioia pasquale.
