Una poltrona di Primo Ministro intrisa di sangue
La guerra a Gaza non è più soltanto un conflitto militare, ma lo specchio della crisi politica interna israeliana. Benjamin Netanyahu, stretto tra il rischio di processi per corruzione, le pressioni degli ultraortodossi e il consenso dei falchi nazionalisti, prolunga l’offensiva come strumento di sopravvivenza personale. Una strategia che, mentre isola Israele sul piano internazionale, rende sempre più urgente il riconoscimento della Palestina come soggetto politico e morale nella comunità delle nazioni.
Benjamin Netanyahu continua a governare Israele come se la guerra fosse l’unica condizione possibile per la sua permanenza al potere. L’offensiva a Gaza, la paralisi dei negoziati sugli ostaggi e il rafforzamento delle colonie in Cisgiordania si intrecciano a un obiettivo più personale che politico: sfuggire al processo per corruzione e frode che lo attende.
La Cisgiordania come seconda Gaza
Mentre l’attenzione internazionale resta sulla devastazione di Gaza, l’esecutivo israeliano porta avanti una silenziosa ma costante occupazione della Cisgiordania. L’espansione degli insediamenti e le operazioni militari quotidiane mirano a rendere di fatto impossibile l’emergere di uno Stato palestinese unitario. È la logica del “fatto compiuto”: smembrare i territori per poi dichiarare che non esiste più una base territoriale per una futura sovranità palestinese.
Il riconoscimento internazionale in arrivo
Tuttavia, diversi Paesi stanno maturando la decisione di riconoscere ufficialmente la Palestina. Irlanda, Spagna, Norvegia e Slovenia hanno già annunciato l’intenzione di farlo, mentre la Danimarca ha dichiarato che “non esclude” il passo. Nel contesto europeo, si tratta di un segnale politico forte, che indica un’insofferenza crescente verso la linea israeliana. Anche Paesi dell’America Latina, come Cile e Brasile, hanno più volte ribadito la necessità di un riconoscimento internazionale immediato.
Questo processo rischia di isolare ulteriormente Israele. Ma Netanyahu, pur consapevole delle conseguenze diplomatiche, preferisce guadagnare tempo: ogni giorno senza un accordo è un giorno in cui resta premier e al riparo dai tribunali.
Silenzio europeo e armi americane
L’Unione Europea, divisa al proprio interno, si limita a dichiarazioni di condanna senza assumere misure concrete. Manca una politica estera comune capace di trasformare le parole in pressioni reali: la sospensione degli accordi economici o delle forniture di armamenti, ad esempio, rimane un tabù.
Al contrario, gli Stati Uniti continuano a rifornire Israele di sistemi d’arma e munizioni, garantendo così la prosecuzione del conflitto. Anche quando esprimono disagio per le stragi di civili o per gli attacchi agli ospedali, Washington non interrompe la catena logistica che alimenta l’offensiva. È il segno che, nonostante i dissensi verbali, la protezione strategica americana rimane intatta.
Scenari futuri
Nel breve periodo, Netanyahu cercherà di prolungare la guerra fino a consolidare la sua posizione interna, mantenendo l’appoggio dei falchi nazionalisti e degli ultraortodossi. Nel medio-lungo periodo, tuttavia, la pressione internazionale crescerà: il riconoscimento dello Stato palestinese da parte di più Paesi europei e latinoamericani rischia di trasformarsi in un processo irreversibile, che condannerà Israele a un isolamento politico simile a quello vissuto dal Sudafrica dell’apartheid.
Per i cattolici e per chiunque creda nella dottrina sociale della Chiesa, la sfida è chiara: sostenere un ordine internazionale fondato sul diritto e non sul fatto compiuto, sulla giustizia e non sulla forza. Una pace giusta non potrà nascere dalla distruzione e dall’occupazione, ma dal riconoscimento reciproco e dal rispetto della dignità di ogni popolo.