È bastata una scintilla — una notizia ancora tutta da accertare, un sospetto, una provenienza straniera — e il fuoco dell’odio ha ripreso a divampare. Ballymena, cittadina di poco più di 30.000 anime nell’Irlanda del Nord, è tornata al centro della cronaca non per le ferite del passato, ma per quelle dell’oggi: ferite che parlano di migranti presi a bersaglio, di case assaltate, di bambini chiusi dentro per paura, di bottiglie molotov contro la polizia e finestre sfondate a calci.

Il pretesto: un tentato stupro in cui sono coinvolti due adolescenti di origine straniera. I fatti devono ancora essere chiariti, le responsabilità stabilite dalla giustizia. Eppure, prima che il diritto parlasse, la rabbia ha preso il sopravvento. Peggio: l’odio organizzato, cieco, sistematico. Un pogrom in miniatura. Con una violenza che richiama fantasmi già visti — come quelli dell’estate scorsa, dopo l’omicidio a Liverpool di due bambine da parte di un ragazzo di origine ruandese — e che riaccende la miccia di tensioni etniche, razziali e sociali pronte ad esplodere ovunque.

Ma dietro le pietre, le molotov e le urla di questi giorni, c’è qualcosa di più profondo e allarmante: l’erosione dell’umano nel cuore dell’Europa. Il fatto che in una democrazia occidentale si possa dare la caccia a famiglie inermi perché “colpevoli” di parlare un’altra lingua, o di venire da altrove, dovrebbe scandalizzare senza ambiguità. E invece trova ancora appigli in una retorica tossica che agita fantasmi, fomenta paure, getta benzina su ogni dramma.

È quanto ha fatto Jim Allister, deputato della destra unionista, che dopo aver definito “angosciante” l’accaduto ha immediatamente attaccato l’emigrazione e la Repubblica d’Irlanda, colpevole a suo dire di lasciar passare “clandestini”. Un capovolgimento inquietante: non gli assediati, ma gli assalitori diventano i “difensori” dell’ordine. È lo schema classico di ogni populismo xenofobo: trasformare la vittima in colpevole, assolvere la violenza come autodifesa. E il prezzo lo pagano sempre i più deboli.

La comunità romena di Ballymena — composta da lavoratori, madri, bambini, famiglie — si è trovata nelle ultime 48 ore al centro di un incubo. Sotto assedio. Letteralmente. Con la colpa aggiuntiva, paradossale, di aver bisogno di un’interprete per un’udienza giudiziaria: gesto normale in uno Stato di diritto, ma divenuto miccia per l’odio, come se parlare un’altra lingua fosse già una colpa.

La polizia ha parlato senza mezzi termini di “teppismo razzista”. Eppure non basta denunciarlo. Occorre andare oltre la cronaca e chiedersi cosa stia succedendo davvero in certe periferie d’Europa: luoghi segnati dalla marginalità, dalla povertà, da identità fragili e nostalgie pericolose. È lì che l’integrazione fallita diventa pretesto per nuovi muri. È lì che il passato dei conflitti interconfessionali — in Irlanda del Nord mai del tutto sopito — incontra le nuove ansie dell’identità etnica.

Il rischio, anche in questo caso, è duplice: da un lato, l’escalation della violenza; dall’altro, la normalizzazione della retorica anti-immigrati, come se certi eccessi fossero “comprensibili”, se non addirittura giustificati. Ma la paura — ci ricorda spesso il Papa — non può mai essere buona consigliera, né pretesto per calpestare la dignità di altri esseri umani.

La Dottrina sociale della Chiesa è chiara: il diritto di migrare è iscritto nella legge naturale, e chi accoglie uno straniero accoglie Cristo. Non c’è “cittadinanza” che autorizzi la discriminazione, né c’è sicurezza senza giustizia. E giustizia, qui, significa riconoscere che il crimine va punito, ma non razzializzato; che la paura va ascoltata, ma non cavalcata; che il dolore delle vittime non può diventare strumento per giustificare altre vittime.

Oggi Ballymena è uno specchio che riflette un’Europa nervosa, divisa, tentata dal ritorno ai fantasmi etnici. Ma è anche un banco di prova: per la politica, per la cultura, per le Chiese. Un’occasione per dire con coraggio che la convivenza è possibile, che l’altro non è un nemico, che la legge deve proteggere tutti — anche quando il “tutti” non ci somiglia.

Perché se in un piccolo paese dell’Irlanda del Nord bastano due adolescenti e una traduzione romena per far esplodere la rabbia, allora serve più che mai una parola di pace che sia anche parola di verità.