Solidali anche Cina e Iran e in America Latina Colombia e Messico

La situazione nel Caribe si carica di tensione e assume contorni sempre più complessi: a fianco della mobilitazione militare degli Stati Uniti d’America nei confronti del Venezuela, si muovono a catena alleanze e richieste d’aiuto che rischiano di trasformare il conflitto locale in un vero nodo geopolitico globale. Negli ultimi giorni è emerso che il presidente venezuelano Nicolás Maduro avrebbe indirizzato formali lettere di richiesta di sostegno militare verso la Russia, la Cina e l’Iran, chiedendo radar, droni, sistemi
missilistici e assistenza tecnica in un contesto che definisce di «aggressione» statunitense. 

Da Mosca, il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov ha dichiarato che «stiamo monitorando attentamente la situazione in Venezuela» e che la Russia «è interessata a garantire che la situazione tra Venezuela e Stati Uniti resti pacifica». Questa cauta posizione pubblica sembra coesistere con la concreta presenza di aerei da trasporto russi diretti a Caracas e accordi strategici bilaterali già in atto. 

Parallelamente, New Delhi-Beijing-Tehran si preparano ad ampliare il fronte diplomatico-militare del Venezuela. Dai documenti trapelati emerge che a Pechino è stata avanzata la richiesta di «cooperazione militare ampliata» e accelerazione della produzione di sistemi radar da parte dell’industria cinese, proprio per rafforzare la difesa venezuelana di fronte alla «escalation USA-Venezuela». 

Allo stesso tempo, il Venezuela avrebbe coordinato con l’Iran l’invio di droni, «jammer GPS» e attrezzature per la sorveglianza ad ampio raggio, riconosciuti nei documenti statunitensi come elementi che «cercano di rafforzare le capacità difensive del Paese». 

Questo nuovo equilibrio di alleanze suggerisce che il Venezuela non si limita più a chiedere solo sostegno geopolitico, ma intende trasformarsi in un hub militare-diplomatico che coinvolge potenze extra-regionali che sfidano l’egemonia statunitense nel continente. Il documento di accordo preliminare con la Russia — un trattato di associazione strategica e cooperazione già approvato in prima lettura dall’Assemblea Nazionale venezuelana — ne è un chiaro indicatore. 

Le possibili forniture richieste comprendono riparazioni di caccia russi Su-30, installazione di radar russi, acquisizione di batterie missilistiche e supporto logístico da parte di Rostec, società statale russa. 

Il Venezuela sostiene che questa strategia è necessaria per difendersi da quella che considera una minaccia imminente: l’arrivo della portaerei americana USS Gerald R. Ford nel Caribe, l’intensificazione delle operazioni navali statunitensi e l’escalation delle guerre economiche e mediatica. 

Cosa comporta tutto questo? Innanzitutto, la dimensione regionale si allarga rapidamente nella sfera globale. Il fatto che Cina e Iran siano coinvolti indirettamente o direttamente nella fornitura di tecnologia militare o cooperazione strategica amplifica la posta in gioco: si tratta non solo della difesa del Venezuela, ma di un paradigma che potrebbe essere replicato altrove. Da parte statunitense la reazione è già visibile: monitoraggio navale nel Caribe, operazioni anti-narcotico che il governo venezuelano accusa di essere pretestuose, e un clima di emergenza che accelera la militarizzazione della zona. 

In secondo luogo, la presenza di potenze come Cina e Iran segna una sfida all’ordine globale dominato da Washington: Pechino è già nota per aver fornito sistemi d’arma a paesi non allineati e ha intensificato la sua cooperazione tecnico-militare con Teheran, come mostrano recenti rapporti sull’invio di materiali per missili. L’Iran, da parte sua, ha rafforzato negli ultimi anni le relazioni con regimi anti-occidentali e costruito infrastrutture “di riserva” per fornire supporto strategico in America Latina. 

Dal punto di vista venezuelano, tutto ciò diventa uno strumento diplomatico e militare di autodifesa ma anche di visibilità internazionale: mostrando che non è isolato e che può contare su attori globali, Maduro intende far passare il messaggio che «qualunque aggressione sarà considerata un’aggressione non solo al Venezuela, ma all’intero asse degli alleati». Ma restano numerosi i nodi: la capacità reale di fornire mezzi da parte di Russia, Cina e Iran è probabilmente limitata, considerati i loro stessi impegni e crisi interne. Gli analisti avvertono che questo sostegno potrebbe essere meno operativo rispetto alle richieste ventilate. 

Per il Venezuela, questa alleanza emergente rappresenta però anche un fattore di rischio. Se l’escalation dovesse degenerare, potrebbe trasformarsi in conflitto aperto nel Caribe, trascinando attori regionali e globali. Inoltre, la cooperazione militare potrebbe provocare sanzioni addizionali e un isolamento ancora maggiore, ma anche legare il Paese a logiche strategiche complesse. Il gioco è dunque relazionale e rischioso: tra difesa della sovranità e protezione di interessi energetici e geopolitici.

In concreto, la vicenda del Venezuela, oggi in bilico tra pressione militare statunitense e alleanze internazionali emergenti, è un segnale che l’America Latina non può più essere considerata solo “il cortile di casa” degli Stati Uniti. Ogni passo del Venezuela verso nuovi partner – Russia, Cina, Iran – modifica l’equilibrio globale e apre scenari di difesa multipolare. Come detto dallo stesso portavoce russo Peskov, «non vogliamo che sorgano nuovi conflitti nella regione. Il mondo è già pieno di conflitti». Ma la domanda è: quando la reazione della rete degli alleati sarà più attiva, sarà ancora possibile contenerla a livello locale?

A questo scenario già complesso si aggiungono le posizioni – molto diverse tra loro – di Messico e Colombia, due attori cruciali del continente. Il Messico ha mantenuto una linea di netta prudenza: da un lato rifiuta qualsiasi ingerenza militare statunitense «in qualunque Paese dell’America Latina», dall’altro evita accuratamente di schierarsi in modo diretto con Caracas. Pur non entrando nelle dinamiche militari, il governo messicano ha ribadito che «la via dell’unica soluzione è diplomatica» e si è detto disponibile ad ospitare nuovi tavoli negoziali tra governo e opposizione venezuelana. Per molti analisti, la posizione messicana è un tentativo di riproporsi come mediatore regionale, soprattutto in un momento in cui l’America Centrale e i Caraibi rischiano di diventare terreno di polarizzazione multipolare.

Diametralmente opposta, invece, la reazione della Colombia. Il presidente Gustavo Petro ha più volte denunciato le operazioni statunitensi nel Caribe e nel Pacifico, accusandole di violare il diritto internazionale e mettendo in guardia contro «l’escalation militare incontrollata» che si sta delineando. Petro sostiene che un intervento armato – diretto o indiretto – in Venezuela avrebbe effetti devastanti su tutta la regione, a partire proprio dalla Colombia, che condivide una frontiera altamente porosa e storicamente instabile con Caracas. Per questo Bogotá insiste sulla necessità che Washington «sospenda ogni iniziativa coercitiva» e che Mosca, Pechino e Teheran «evitino di trasformare il Venezuela in un teatro di competizione militare globale».

La posizione colombiana è tutt’altro che secondaria: un conflitto aperto costringerebbe Bogotá a gestire flussi migratori enormi, potenziali infiltrazioni armate e una destabilizzazione economica che colpirebbe tutta l’area andina. È anche per questo che Petro chiede una «mediazione latinoamericana» che tenga fuori le grandi potenze, nella convinzione che l’ingresso di attori esterni trasformerebbe una crisi regionale in una crisi sistemica.

In questo quadro, il Venezuela diventa il punto di convergenza di tre assi: quello militare (Russia, Cina, Iran), quello emersivo-diplomatico latinoamericano (Messico), e quello critico-sovranista regionale (Colombia). La combinazione di queste spinte, unite alla pressione statunitense, rende il contesto ancora più imprevedibile e sottolinea come la crisi venezuelana stia rapidamente superando i confini del Paese, trasformandosi in una partita geopolitica di primo livello.