L’Himalaya si è trasformato ancora una volta in luogo di silenzio e lutto per l’Italia. Cinque alpinisti italiani hanno perso la vita in due distinti incidenti in Nepal, travolti da una natura che amavano e che stavano sfidando con passione e competenza; altri connazionali risultano ancora dispersi. Mentre le famiglie attendono notizie e i soccorsi lottano contro neve e quota, il Paese si interroga sul senso profondo di chi cerca l’altezza, sapendo che la montagna dona immensità ma chiede umiltà e, talvolta, un prezzo estremo.

Ci sono luoghi che sembrano parlare con voce più limpida del resto del mondo. L’alta montagna è uno di questi: spazio di silenzio, di purezza, di fatica che diventa preghiera, di rischio che diventa libertà. Per molti alpinisti non è evasione, ma ritorno all’essenziale. “Per salire bisogna scendere in sé stessi”, diceva Walter Bonatti.

Questa volta, però, l’Himalaya ci restituisce una pagina dolorosa. Cinque italiani hanno perso la vita in due diversi incidenti sulle vette nepalesi: Alessandro Caputo e Stefano Farronato travolti dalla bufera sul Panbari; Paolo Cocco, fotografo abruzzese, ritrovato senza vita sul Dolma Khang; altri dispersi, altri nomi che le famiglie attendono con il fiato sospeso. Dramma nella neve, lacrime nel nostro Paese.

Non è il momento del giudizio. Non è mai il momento quando davanti ci sono famiglie che piangono e comunità che sperano ancora in un segnale di vita, come quello intermittente del GPS della guida Marco Di Marcello. La montagna, come il mare, non dà spiegazioni: accoglie e custodisce, ma chiede un prezzo alle vite che l’attraversano.

E allora, in questo dolore, vale la pena domandarsi che cosa spinge una persona a partire, a cercare un orizzonte così alto da mettere in gioco tutto. Non la follia del rischio a vuoto. Non la sfida alla natura, come nei racconti sensazionalistici. Piuttosto, la ricerca di qualcosa di più grande: un modo per misurarsi con i propri limiti, per trovare silenzio dove il mondo urla, per respirare profondamente un’aria che sa di eternità.

L’alpinismo è un custode di questo mistero: l’uomo non è fatto per il comodo, ma per l’infinito.

E tuttavia l’infinito, sulla terra, resta fragile. Basta una tormenta anticipata, una cornice che cede, una scelta obbligata in quota. La montagna è scuola di umiltà proprio perché ricorda che non basta la preparazione più rigorosa, non basta l’esperienza, non basta la passione.

La comunità alpinistica italiana lo sa, lo ripete, lo vive. E oggi stringe idealmente la mano ai familiari, ai compagni di cordata, a chi è ancora là, sospeso tra speranza e realtà. Non esiste un modo indolore per ricevere certi colpi: si ascolta, si accompagna, si prega — ciascuno con le parole che ha, ma con lo stesso rispetto.

E per noi, da quaggiù, una riflessione: il desiderio di sfidare l’altitudine è lo specchio di una sete più profonda. In un mondo che confonde libertà con consumo e successo con visibilità, chi sceglie una cima spesso fa la scelta opposta: allena la disciplina, accetta la solitudine, riconosce la propria piccolezza davanti a un orizzonte che non si conquista mai del tutto.

Forse per questo, ogni volta che la montagna chiede un tributo, il Paese intero si ferma. Perché, pur senza volerlo, quegli uomini e quelle donne portano nel loro gesto una domanda che riguarda anche noi: che cosa vale davvero la pena vivere? Che cosa significa arrivare in alto?

Non esistono risposte facili. Ma ci sono atteggiamenti giusti: il pudore del dolore, la gratitudine per chi ha osato, il rispetto per chi sceglie la fatica al posto dell’indifferenza, la consapevolezza che la vita — ogni vita — è un dono fragile e magnifico.

E allora, oggi, mentre aspettiamo notizie dai soccorritori e accompagniamo i nomi già confermati con una preghiera silenziosa, possiamo solo ripetere con discrezione ciò che chi ama la montagna sa da sempre: salire è un verbo che non si coniuga solo con i muscoli, ma con l’anima.

A volte si torna. A volte no.

Ma ogni passo verso l’alto, se vissuto con verità, resta una testimonianza: che la vita è più grande della paura, e che anche dove finisce l’aria, può restare un respiro di speranza.