Quando la vita vale meno di un gioco. Educare, non strumentalizzare

Milano, quartiere Gratosoglio. È il 12 agosto quando, in via Saponaro, la signora Cecilia De Astis, 71 anni, viene travolta e uccisa da un’auto rubata. Alla guida non c’è un malvivente adulto, ma un ragazzino di appena 13 anni, a bordo con altri tre bambini di 11 e 12 anni, fra cui una bambina. Dopo l’impatto, fuggono, lasciando a terra la donna senza vita. Vengono riconosciuti grazie alle telecamere — e perfino da una maglietta dei Pokémon indossata da uno di loro — e rintracciati in un campo rom di via Selvanesco.

La legge è chiara: sotto i 14 anni non sono imputabili, perché ritenuti incapaci di intendere e di volere. Saranno affidati ai servizi sociali e probabilmente a comunità educative. Ma intanto una vita si è spenta, e un’intera città si interroga.

Le testimonianze e il contesto

I vicini raccontano che Cecilia era una donna semplice, mite, legata al quartiere. “Era uscita per fare due passi, non ha fatto in tempo nemmeno ad accorgersi”, dicono con voce rotta. E dall’altra parte, la madre di uno dei piccoli coinvolti, con parole che colpiscono: “Piango dall’alba per quella signora. Mio figlio non mi ha detto nulla”. Dietro a queste lacrime tardive c’è il dramma di famiglie fragili, spesso segnate da povertà, marginalità, talvolta da illegalità radicata. Non a caso, la madre di due di quei ragazzi era già destinataria di un ordine di carcerazione per reati precedenti.

I bambini non nascono violenti, né criminali. Crescono però in contesti in cui il rispetto della legge è relativo, il limite non viene insegnato, e il confine fra bene e male si confonde. Rubare un’auto, correre a folle velocità, sfuggire alla polizia: in quell’ambiente può sembrare un gioco. Fino a quando un gioco diventa tragedia.

L’imputabilità mancata e la responsabilità mancata

La norma sull’imputabilità dei minori sotto i 14 anni ha una sua ragionevolezza: non si può chiedere a un bambino la stessa consapevolezza di un adulto. Ma non possiamo fermarci al dato giuridico. Questi ragazzi non sono colpevoli nel senso tecnico, ma sono responsabilità di qualcuno: genitori, famiglie, comunità, istituzioni.

Ed è qui che la domanda diventa più radicale: chi educa questi figli? Chi insegna loro il valore della vita, il rispetto dell’altro, la differenza tra bene e male? Se un bambino di 11 anni può mettersi al volante di una macchina rubata e investire una donna, non è solo un suo fallimento, ma un fallimento collettivo.

Evitare le strumentalizzazioni

La reazione politica non si è fatta attendere: Matteo Salvini ha invocato di “radere al suolo il campo rom”, annullare la patria potestà, arrestare i genitori. Parole dure, che raccolgono applausi facili ma che non costruiscono nulla. Lo ha detto bene il sindaco Sala: speculare su una tragedia così è vergognoso. Non si risolve la questione educativa con le ruspe né con gli slogan.

Un cristiano non può cedere alla tentazione della vendetta collettiva. Sgomberare campi non elimina le ferite, anzi le moltiplica. Il Vangelo ci ricorda che la giustizia è anzitutto custodia della vita e che ogni bambino — anche il più sperduto — è chiamato a una speranza.

Il compito educativo e comunitario

La vera domanda è: come prevenire queste tragedie?

  • Offrendo percorsi educativi seri dentro e fuori i campi rom, che non siano solo assistenzialismo ma vera responsabilità condivisa.
  • Rafforzando la rete scuola–parrocchia–servizi sociali, perché i minori non siano lasciati a se stessi.
  • Creando comunità educanti che non lascino il ragazzo “ai margini” come se non fosse affar nostro.

Ogni oratorio, ogni parrocchia, ogni associazione può e deve interrogarsi: chi sono i nostri invisibili? I nostri “undicenni” che rischiano di perdersi? Educare significa prevenire, non solo riparare.

Indignarsi sì, ma per cambiare

La morte di Cecilia De Astis grida giustizia. Ma non giustizia vendicativa, bensì giustizia educativa. Grida un impegno nuovo per i più piccoli, anche quando vengono da contesti difficili, anche quando il loro cognome porta con sé pregiudizi. La dignità non ha etnia, la speranza non ha passaporto.

Se non investiamo nell’educazione, continueremo a piangere vittime innocenti e a scaricare la colpa sugli slogan. È tempo di passare dalla rabbia alla responsabilità.