il Mediterraneo come specchio dell’Europa che vogliamo

Il Mediterraneo continua a restituirci non solo corpi, ma domande. Ancora una volta – tra i soccorsi, le vite salvate, i neonati in fasce e le donne incinte, i minorenni non accompagnati – si affaccia l’immagine di un’umanità dolente, di naufraghi nel corpo e nell’anima. Mentre scriviamo, quasi 700 migranti sono giunti in poche ore sulle coste italiane, tra Lampedusa, Roccella Ionica, Reggio Calabria e a bordo della Life Support. Qualcuno è morto in mare, qualcuno è in viaggio per giorni verso porti lontani. Qualcuno è nato nel frattempo.

Il diritto di vivere, il dovere di salvare

Come cristiani, non possiamo tacere. Ogni migrante ha diritto a vivere e ogni Stato ha il dovere morale – oltre che giuridico – di salvare. È questo principio che oggi è sotto accusa nel naufragio di Cutro, dove 94 vite, tra cui 35 minori, sono andate perdute nel febbraio 2023. Il rinvio a giudizio di sei militari, tra Guardia di Finanza e Guardia Costiera, non è – come ha gridato qualcuno – “una vergogna”, ma l’esercizio di uno Stato di diritto. Non si processa l’eroismo quotidiano delle forze dell’ordine, ma si cercano verità e giustizia davanti a un fallimento del sistema. È questo il senso più profondo del diritto: non vendetta, ma verità nella carità.

Il grido di Salvini (“Vergogna”) è fuori luogo, così come lo sarebbe stato dire “vergogna” davanti a chi cerca giustizia per gli abusi del clero. Il rispetto per le divise non può diventare idolatria istituzionale. Lo dice anche il Vangelo: “Guai a voi che caricate gli uomini di pesi insopportabili e voi non li toccate nemmeno con un dito” (Lc 11,46). È troppo facile santificare gli apparati e criminalizzare i poveri.

Il Mediterraneo come crocevia di speranza e responsabilità

La cronaca delle ultime ore ci consegna il solito copione: partenze dalla Libia, barche alla deriva, morti evitabili, minori soli, sbarchi distanti dai luoghi del soccorso. È lo specchio di un’Europa divisa, dove la solidarietà è relegata alle Ong e la politica si gioca in base alle convenienze elettorali. L’assegnazione di porti lontani (Ancona per un salvataggio vicino alla Libia!) è un modo sottile per scoraggiare i soccorsi. Ma è anche una forma di disumanizzazione della geografia.

Dobbiamo domandarci: che cosa insegniamo ai nostri figli? Che chi salva una vita è da ostacolare? Che l’accoglienza è un rischio da minimizzare? È questo il Vangelo che vogliamo vivere?

Papa Francesco, che ha fatto di Lampedusa un simbolo del suo pontificato, ci ha detto senza ambiguità: “Chi guarda un migrante e non vede un fratello, rischia di guardare Dio e non riconoscerlo.”

n un contesto dominato da contrapposizioni ideologiche e calcoli politici, la voce della Chiesa cattolica rimane tra le poche capaci di offrire una parola profetica. La CEI, in numerosi documenti, ha ribadito con forza che “nessun uomo è straniero per un altro uomo”, e che “la sicurezza non può mai diventare un pretesto per respingere chi è nel bisogno, né l’ordine pubblico un alibi per calpestare la dignità di chi chiede aiuto”.

Papa Benedetto XVI, in una delle sue più limpide e coraggiose prese di posizione, ricordava:

“Ogni migrante è una persona umana, con diritti fondamentali inalienabili, che devono essere rispettati da tutti e in ogni situazione” (Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, 2011)

E ancora, in un passaggio passato troppo sotto silenzio nel suo Caritas in Veritate:

“Le migrazioni sono un segno dei tempi che interpella la coscienza cristiana e la responsabilità civile”.

(Caritas in Veritate, n. 62)

Queste parole oggi risuonano come ammonimento: la Chiesa non si è mai schierata con la “chiusura delle frontiere”, perché sa che il Vangelo non conosce confini artificiali ma solo cuori aperti.

La dignità che costa 8.000 dollari

È impressionante leggere che molte delle persone sbarcate a Lampedusa abbiano pagato tra i 5.000 e gli 8.000 dollari per attraversare il mare. È il prezzo della disperazione. La tratta degli esseri umani è diventata il volto postmoderno della schiavitù: dietro ci sono mafie transnazionali, trafficanti, Stati collusi o indifferenti.

Da cattolici dobbiamo dire forte che nessuna persona è “clandestina”, perché nessuna vita è illegale. La Dottrina Sociale della Chiesa ci insegna che “il diritto di emigrare” appartiene alla dignità della persona, e che “la destinazione universale dei beni” deve prevalere sull’egoismo dei confini chiusi.

Cutro e la coscienza nazionale

Il processo che si aprirà il 14 gennaio 2026 a Crotone sarà lungo e complesso. Ma già oggi pone alla nostra coscienza la domanda fondamentale: chi siamo noi? Siamo un popolo capace di piangere i morti e dimenticarli, o siamo capaci di costruire verità condivise e prevenire altri disastri?

Il Vangelo ci offre una chiave: “Ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35). Non dice: “mi avete registrato”, o “mi avete lasciato in mare”. Dice “accolto”. Questo è il giudizio che conta, quello della nostra umanità. E sarà su questo che saremo giudicati anche da Dio.

 La sfida dell’umanesimo cristiano

Papa Leone XIV, in uno dei suoi primi discorsi, forse memore di Cutro, simbolo di una ferita ancora aperta, ha detto senza ambiguità:

“Non possiamo dirci cristiani e restare indifferenti a chi bussa alle porte dell’Europa e del nostro cuore. L’ospitalità non è solo un dovere civile, ma un atto di fede.”

In un tempo in cui si moltiplicano le leggi di contenimento e le narrative della paura, queste parole tracciano una via alternativa: quella del coraggio evangelico, del realismo della carità e della profonda consapevolezza che la salvezza non è mai individuale, ma sempre solidale.

La vera alternativa non è tra sicurezza e accoglienza, ma tra cinismo e speranza. Gli istituti religiosi, i movimenti ecclesiali, i parroci delle periferie, i volontari delle Caritas, le suore sulle banchine: tutti siamo chiamati a testimoniare un’altra Europa, fondata non sulla paura ma sulla carità.

Lo ripetiamo con forza: non basta commuoversi a Cutro e indignarsi a Lampedusa. Occorre costruire un umanesimo cristiano della responsabilità, che dia risposte, costruisca ponti, difenda le vite più fragili. Se non lo facciamo noi, chi lo farà?“Chi salva una vita salva il mondo intero” (Talmud, ma citato anche da Giovanni Paolo II e ricordato a Yad Vashem).Nel nostro caso, chi lascia morire una vita, uccide qualcosa in tutti noi.