Il Mali vive un’altra fase drammatica della sua lunga crisi. Dopo aver annunciato un blocco, i jihadisti del Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (JNIM), affiliati ad al-Qaida, hanno iniziato a incendiare i camion di carburante diretti verso il Paese. È una strategia diversa dalle solite imboscate armate: questa volta l’obiettivo non è solo seminare morte, ma asfissiare economicamente l’intera nazione, privando la capitale Bamako della sua linfa vitale.
Il carburante rappresenta un terzo delle importazioni maliane. Senza di esso si ferma tutto: trasporti, produzione industriale, persino l’approvvigionamento alimentare nei mercati popolari. Un colpo mirato al cuore fragile di un Paese già impoverito, che vive sotto la costante minaccia dell’insicurezza e della dipendenza dalle merci che arrivano da Senegal e Costa d’Avorio.
Gli attentati recenti contro siti industriali nella regione di Kayes mostrano che non si tratta solo di propaganda: i jihadisti stanno cercando di strangolare i flussi economici, di dimostrare che possono colpire dove fa più male. È terrorismo, ma anche guerra psicologica: a Bamako circolano voci di un imminente controllo della capitale, alimentando il panico tra la popolazione.
Eppure, come ricorda l’ex militare Cheick Oumar Coulibaly, “non potranno mai prendere Bamako”. Una frase che suona più come un atto di fede che come una certezza strategica. La verità è che il Mali è stretto in una morsa: da un lato le offensive jihadiste, dall’altro l’isolamento internazionale seguito alla rottura con la Francia e le tensioni con la CEDEAO. L’embargo del 2022 aveva già mostrato quanto sia facile paralizzare un Paese senza sbocchi sul mare.
Di fronte a questo scenario, la domanda che s’impone è politica e morale: quanto ancora la comunità internazionale intende restare spettatrice di un Mali in fiamme? E quanto il governo di transizione, più attento a consolidare il potere che a proteggere i civili, potrà resistere senza un serio piano di sicurezza e di sviluppo?
Il carburante che brucia sulle strade di Kayes o lungo i confini non è solo materia prima. È il simbolo di un popolo lasciato senza respiro, vittima di una guerra che non è più solo contro il terrorismo, ma contro la sua stessa possibilità di sopravvivere.