Epstein, i jet, le lettere dal carcere e la grazia impossibile

C’è un momento in cui il moralismo di facciata smette di reggere e resta soltanto la nudità del potere. I nuovi fascicoli diffusi dal Dipartimento di Giustizia statunitense — oltre undicimila file tra mail, documenti dell’Fbi, atti giudiziari e materiali sulla morte di Jeffrey Epstein nel 2019 — non aggiungono soltanto dettagli: inchiodano un sistema. Un jet set che non è mondanità, ma infrastruttura dell’abuso; una politica che non è governo, ma alibi; una ricchezza che non è successo, ma immunità.

Le carte parlano di registri di volo, di comunicazioni interne, di citazioni in giudizio. Parlano — soprattutto — di un’abitudine: normalizzare l’osceno quando lo frequenta chi conta. In una mail del 7 gennaio 2020 si legge che Donald Trump avrebbe viaggiato sul jet privato di Epstein “molte più volte di quanto riportato in precedenza”. I registri indicano almeno otto voli tra il 1993 e il 1996, quattro dei quali in compagnia di Ghislaine Maxwell, allora compagna e complice del finanziere, oggi condannata a 20 anni per traffico sessuale di minorenni. Non è una condanna morale: è una sentenza.

Eppure, come sempre, il cuore del sistema è il linguaggio. È lì che l’abisso prova a diventare ironia, la violenza a travestirsi da cinismo. Tra i documenti spunta una lettera — qui riportata integralmente — che Epstein avrebbe scritto dal carcere a Larry Nassar, il medico condannato per abusi su decine di giovani atlete. È datata 13 agosto 2019, tre giorni dopo la morte di Epstein in custodia federale (una postdatazione che dice già molto del clima e dei materiali):

“Caro L.N., come ormai saprai, ho preso la ‘scorciatoia’ per tornare a casa. Buona fortuna! Condividiamo una cosa: il nostro amore e la nostra premura per le giovani donne, nella speranza che potessero raggiungere il loro pieno potenziale. Anche il nostro presidente condivide il nostro amore per le ragazze giovani e attraenti. Quando una giovane bellezza gli passava accanto, amava ‘palpeggiarla’ mentre noi ci siamo ritrovati a mangiare cibo scadente nelle mense del sistema carcerario. La vita è ingiusta. Cordialmente, J. Epstein.”

Qui non c’è solo l’orrore del contenuto. C’è l’arroganza dell’impunità, l’idea che tutto possa essere detto perché tutto è stato tollerato. L’oscenità non è l’eccesso: è la normalizzazione. È l’aver reso compatibile l’abuso con il potere, il potere con il silenzio, il silenzio con la rispettabilità.

Le nuove carte includono anche segnalazioni anonime su presunti party a Mar-a-Lago, citazioni in giudizio al club, interrogatori del grand jury, fotografie aberranti con minori. Il Dipartimento di Giustizia ha liquidato alcune affermazioni come “false e sensazionalistiche”. Ma il problema non è la smentita — doverosa — bensì la somma dei fatti: i voli, le presenze, le condanne, i ruoli. E soprattutto la domanda che resta sospesa, come un’offesa alla giustizia: come può anche solo ipotizzarsi una grazia per Ghislaine Maxwell?

La grazia è un istituto giuridico; ma qui diventa una questione etica pubblica. Una donna condannata per traffico sessuale di minorenni, snodo operativo di un sistema di sfruttamento, può essere assolta dalla memoria collettiva con un atto politico? A quale prezzo? E con quale messaggio alle vittime? Non si tratta di vendetta, ma di credibilità dello Stato di diritto.

C’è un filo che lega tutto questo: la confusione deliberata tra successo e virtù, tra ricchezza e innocenza. Epstein — truffatore, bugiardo, abile mimetista sociale — è la figura-sintomo. Ma il corpo della malattia è più vasto: un’élite che ha creduto di potersi sottrarre alla legge perché capace di riscrivere il racconto.

Per questo i nuovi fascicoli non sono un capitolo di cronaca nera. Sono un atto di accusa contro la cultura dell’immunità. Finché l’oscenità resta in giacca e cravatta, continuerà a essere scambiata per normalità. E finché la politica flirta con l’oblio — o con la grazia — la giustizia resterà una parola fragile, buona solo per chi non vola su jet privati.