C’è un momento, nella geopolitica, in cui la realtà e la finzione finiscono per assomigliarsi così tanto da confondersi. È il caso del Venezuela, un Paese esausto, pieno di contraddizioni ma geloso della propria sovranità, che da settimane osserva le navi statunitensi nel Mar dei Caraibi con la stessa apprensione con cui si guarda un temporale in lontananza: sperando che cambi direzione.

Le autorità di Washington parlano di «lotta al narcotraffico». Una formula generica, talmente elastica da poter giustificare qualsiasi cosa.

Eppure, lo sanno tutti: se la guerra al narcotraffico fosse davvero la priorità, gli Stati Uniti avrebbero altri bersagli, ben più rilevanti, dalla frontiera messicana alle montagne colombiane. Invece no: nel mirino, anche se nessuno lo dice apertamente, sembra esserci Caracas.

Il rischio – e lo diciamo con chiarezza – è quello di un intervento “chirurgico”, una di quelle operazioni che promettono di «durare poche ore» e finiscono per lasciare ferite lunghe decenni. L’idea che circola nei corridoi più nervosi di Washington è sempre la stessa: neutralizzare aeroporti e basi militari, corrodere dall’interno la lealtà delle forze armate, rimuovere la leadership politica e installare un governo di transizione “affidabile”.

Una regia vista molte volte nella storia latinoamericana. E quasi sempre legata a una risorsa che non appare mai nei comunicati ufficiali: il petrolio.

Il Venezuela ne ha più di quanto il mondo possa immaginare.

E in un’epoca in cui l’energia torna a essere geopolitica allo stato puro, controllare l’Orinoco significa controllare molto più di un Paese: significa controllare un equilibrio.

In questo scenario complesso e teso, è entrata sulla scena anche una figura che i media internazionali hanno elevato a simbolo morale: Mariela Castillo, attivista per i diritti umani, nuova Premio Nobel per la Pace 2025.

Una donna coraggiosa, che ha denunciato violenze, repressioni e corruzione, pagando di persona il prezzo della verità.

Eppure, proprio per questo, il suo nome rischia ora di essere trascinato dentro una narrazione che non ha nulla di pacifico. Alcuni analisti americani la immaginano come “volto ideale” di un futuro governo post-crisi. Ma sarebbe un’operazione doppiamente ingiusta:

ingiusta verso di lei, che è portatrice di un messaggio autentico, non di strategie altrui; ingiusta verso un popolo, che non merita di essere trasformato in scenario per la proiezione di potenze esterne.

La pace non si costruisce con i missili, né con i governi preparati in laboratorio. C’è, nel vocabolario internazionale, una parola che vale sempre meno: sovranità. La condanniamo quando la viola Putin in Ucraina – e facciamo bene. Ma non possiamo ridurla a variabile negoziabile quando riguarda un Paese sudamericano, povero e fragile. La dignità degli Stati non dipende dal loro PIL.

Un intervento contro il Venezuela, qualunque sia la formula utilizzata – “umanitario”, “difensivo”, “antinarcotici” – costituirebbe comunque una ferita al diritto internazionale, un cedimento davanti alla logica del più forte.

E, come sempre accade, i primi a pagare sarebbero i civili: le famiglie che fanno la fila per il pane, i ragazzi dei barrios, gli anziani che non hanno più un ospedale funzionante.

E allora la domanda che dovremmo porci è semplice: perché la pace è sempre più fragile quando c’è di mezzo il petrolio?

Forse perché, come abbiamo imparato nella storia recente, la guerra si giustifica sempre con parole nobili, ma si decide sempre per motivi molto meno nobili.

E forse perché in un mondo che parla di dialogo e cooperazione, continuiamo a ragionare con l’antico schema delle sfere d’influenza.

L’auspicio, oggi, è uno soltanto: che le navi americane rimangano dove sono. Che nessuno si lasci tentare dalla falsa illusione di un intervento rapido e incruento.

Che sia la politica, non la forza, a farsi strada.

E che la voce di figure come Mariela Castillo, Nobel per la Pace senza eserciti né sponsor, rimanga ciò che è: una testimonianza, non uno strumento.

Perché la pace, quella vera, non ha alleati perfetti.

Ma ha un dovere assoluto: non essere mai usata come pretesto per la guerra.