L’attività economica, nella sua duplice dimensione privata e pubblica, non può essere considerata come un mero spazio tecnico neutrale, regolato soltanto da logiche di efficienza o di massimizzazione del profitto. Essa si presenta, piuttosto, come uno dei luoghi decisivi nei quali si gioca la qualità etica dell’ordine giuridico e la credibilità stessa del patto di convivenza tra i popoli. Proprio per questo, l’ordinamento è chiamato ad assumere un compito di alta responsabilità: armonizzare le libertà economiche dei singoli e dei gruppi con le esigenze della giustizia sociale, così che l’iniziativa privata sia riconosciuta, tutelata e promossa, ma non lasciata priva di orientamento rispetto al bene comune e alla destinazione universale dei beni. 

Nella prospettiva di una “vita buona” che non si esaurisca nel benessere materiale, ma si apra alla pienezza dell’umano, la distinzione tra attività economica privata e attività economica pubblica non si traduce in una contrapposizione ideologica, bensì in una complementarità ordinata. L’iniziativa privata costituisce una risorsa insostituibile di creatività, innovazione, responsabilità personale; l’azione pubblica, nelle sue forme statali e para-statali, ha la funzione non meno imprescindibile di assicurare che tali energie non restino potenziali né vengano disperse o deviate in direzione di interessi particolaristici, ma siano indirizzate verso obiettivi condivisi di inclusione, equità, coesione sociale. È il nucleo di quella “questione sociale divenuta questione mondiale” che il Magistero ha da tempo riconosciuto, richiamando gli ordinamenti a una visione integrale dello sviluppo e della persona umana. In questo senso, la funzione ordinatrice delle istituzioni economiche pubbliche non va letta come compressione delle autonomie, bensì come forma alta di servizio: servizio al lavoratore, alla famiglia, alle comunità locali, alle categorie sociali più vulnerabili, al tessuto relazionale che rende possibile la fiducia reciproca. Il riferimento ai molteplici obiettivi di interesse comune – dalla promozione del lavoro dignitoso alla protezione della salute, dalla tutela del risparmio alla giusta distribuzione territoriale delle attività produttive, dalla garanzia di un’abitazione adeguata per i capi famiglia al sostegno nei momenti di disoccupazione, malattia, infortunio o vecchiaia – mostra che l’economia pubblica è autenticamente tale solo se assume, come criterio guida, la dignità vivente delle persone e delle famiglie, nonché la responsabilità verso le generazioni future. La prospettiva dell’integralità – sviluppo di “ogni uomo e di tutto l’uomo” – consente di superare la riduzione funzionalistica dell’attività economica a meccanismo di produzione e distribuzione di beni materiali. L’intervento pubblico, quando è giuridicamente ben strutturato e politicamente responsabile, non si limita a correggere le esternalità negative del mercato, ma concorre a generare condizioni perché ogni persona possa “essere di più”, crescere in umanità, partecipare effettivamente alla vita sociale, politica, culturale, non da mera destinataria di prestazioni ma da soggetto attivo e corresponsabile. Proprio in questa prospettiva acquista significato il lungo elenco di finalità che l’attività economica pubblica è chiamata a perseguire: promuovere la piena occupazione e l’orientamento professionale dei giovani; regolare, nell’interesse comune, l’uso e la distribuzione dei beni di consumo e l’attività di impresa in regime di non concorrenza; proteggere il risparmio e la stabilità monetaria; ordinare i rapporti economici internazionali in vista di una equa distribuzione dei beni della terra. Tali direttrici non sono semplici linee di policy tecniche, ma configurano – sul piano giuridico – un vero e proprio “statuto della solidarietà economica”, che chiama in causa il principio di eguaglianza sostanziale, il dovere di cooperazione e la responsabilità verso i popoli che soffrono la fame, la miseria, la marginalizzazione. 

Fiscalità e finanza come luoghi di giustizia

 Su questo sfondo, la fiscalità e la finanza pubblica emergono come luoghi altamente sensibili di giustizia. Il prelievo tributario non è soltanto un’operazione contabile, ma un atto che incide direttamente sulla distribuzione dei pesi e dei benefici nella comunità politica. La sua legittimità non si esaurisce nel dato formale della legalità: esige il rispetto del principio di uguaglianza, inteso sia in senso orizzontale (a uguale situazione, uguale contributo e uguale accesso ai servizi) sia in senso verticale (graduazione del sacrificio secondo la capacità contributiva reale, tutela dei bisogni maggiori). L’idea di generalità, secondo cui le utilità e i sacrifici recati dall’azione finanziaria devono riguardare l’intera collettività, rappresenta un argine giuridico contro ogni forma di privilegio fiscale e di appropriazione privata delle rendite pubbliche. Non meno rilevante è la consapevolezza che il tributo possiede, accanto alla funzione immediata di procurare mezzi per la spesa pubblica, una funzione extra-fiscale: esso contribuisce a ridisegnare la mappa delle ricchezze, a scoraggiare forme di consumo lusorio e socialmente dannoso, a incentivare od ostacolare determinate attività economiche alla luce della loro utilità sociale. È qui che l’ordinamento fiscale si innesta nella grande tradizione del pensiero giuridico sul riconoscimento, facendosi strumento, talvolta discreto ma potente, di una politica del riconoscimento che mira a ricomporre squilibri, a dare visibilità e protezione a soggetti e territori marginalizzati, a rendere effettiva una reciprocità non puramente contrattuale, ma carica di responsabilità verso l’altro. La stessa riflessione sull’attività monetaria dello Stato si colloca in questo orizzonte. La moneta non è solo un mezzo tecnico di scambio, ma un’istituzione di fiducia, un “linguaggio” condiviso nel quale il corpo sociale esprime la propria capacità di cooperare nel tempo. Ogni manovra che, con finalità occulte di reperimento di risorse o di gestione miope del consenso, consenta una svalutazione disordinata o un’erosione surrettizia del potere d’acquisto della moneta, si traduce in un abuso della fiducia collettiva e in una violazione del principio di equità intergenerazionale. L’ingiusta distribuzione degli oneri inflazionistici, che spesso colpiscono più duramente i ceti a reddito fisso e i piccoli risparmiatori, mostra come la politica monetaria, se sganciata da una rigorosa valutazione degli effetti immediati e mediati sui diversi gruppi sociali, possa divenire strumento di ingiustizia strutturale. In questo quadro, il patrimonio pubblico non è soltanto un aggregato di beni produttivi o di cespiti finanziari: è un “bene comune istituzionalizzato”, che deve essere amministrato secondo i criteri della massima efficienza compatibile con la giustizia sociale, della trasparenza gestionale, della reversibilità delle scelte. Laddove lo Stato o altri enti pubblici siano proprietari di mezzi di produzione, l’inefficienza, la dispersione del valore, la tutela di rendite parassitarie non trovano giustificazione in un generico richiamo alla funzione sociale: esse si traducono, al contrario, in una violazione del dovere di corretta amministrazione e in una lesione del diritto dei cittadini a un uso responsabile e fruttuoso delle risorse comuni. Il dovere tributario, in questa prospettiva, si configura come dovere giuridico e morale insieme. L’evasione non è solo elusione di un comando normativo, ma rifiuto di partecipare lealmente al patto di solidarietà che regge l’ordine politico: chi evade si sottrae alla logica della reciprocità e trasferisce su altri il peso delle prestazioni pubbliche di cui egli stesso beneficia. D’altra parte, l’ordinamento ha la responsabilità di evitare forme di ipocrisia legislativa: aliquote irrealistiche, accertamenti diseguali, complessità inutili nei procedimenti di riscossione finiscono per alimentare un clima di sfiducia, favorire il contribuente “scaltro” e penalizzare il contribuente onesto o semplicemente più vulnerabile. 

La legislazione economica in chiave antropologica e sociale

È compito della buona legislazione fiscale garantire che il sacrificio richiesto sia proporzionato, intellegibile e sopportabile, così che la legalità non si separi dalla legittimità percepita. L’intero impianto dell’attività economica pubblica trova, tuttavia, la sua piena giustificazione solo se viene letto alla luce di una più ampia antropologia giuridica e sociale. La fraternità e l’amicizia sociale – che non sono categorie puramente spirituali, ma principi operativi dell’ordine internazionale ed interno – esigono che i sistemi economici non producano “scarti”, non legittimino sacche di povertà strutturale, non rendano invisibili intere porzioni di umanità. Quando un’economia genera esclusione, quando segmenti della società sono condannati a condizioni di lavoro indegne o alla disoccupazione prolungata, quando intere regioni sono lasciate in stato di desertificazione produttiva, si deve riconoscere che non si tratta di meri “fallimenti di mercato”, ma di deficit di giustizia e di riconoscimento.  La fraternità, intesa in senso giuridico-politico, si traduce allora in un principio di reciprocità strutturale: i diritti non sono più pensati come pretese isolate, ma come dinamiche relazionali che implicano l’altro e ne riconoscono l’uguale dignità. In questa linea, la riflessione sul prossimo invita a pensare l’istituzione economica – pubblica e privata – come spazio di riconoscimento reciproco, dove la logica del contratto sia integrata e superata dalla logica del dono e della sovrabbondanza, senza rinunciare alla razionalità delle regole, ma innervandole di gratuità. Ciò non significa negare il ruolo dell’interesse o dell’iniziativa individuale: significa piuttosto ricondurli entro un orizzonte di senso in cui il “valere di più” e l’“avere di più” trovano il proprio criterio nell’“essere di più insieme”, nella costruzione di una casa comune nella quale il lavoro di ciascuno contribuisca alla vita dignitosa di tutti. Così, anche gli strumenti più tecnici dell’economia pubblica – la programmazione degli investimenti, le politiche di welfare, le strategie di riequilibrio territoriale, la cooperazione internazionale allo sviluppo – si presentano come forme concrete di una giustizia che non è solo distributiva, ma anche partecipativa e relazionale. In tale prospettiva, la dimensione internazionale dell’attività economica pubblica assume un rilievo imprescindibile. Le scelte di politica monetaria, commerciale, fiscale non si limitano a incidere sul corpo sociale interno, ma riverberano i loro effetti sui popoli legati da relazioni di interdipendenza: i popoli della povertà interpellano quelli dell’opulenza, esigendo non elemosina, ma giustizia nella strutturazione delle regole del commercio, dei flussi finanziari, dell’accesso alle risorse naturali. Un ordinamento economico internazionale che accetti o produca squilibri crescenti, che permetta a pochi di accaparrare le fonti energetiche e alimentari a scapito di molti, che non si curi di assicurare a tutti un “conveniente tenore di vita”, non può dirsi conforme ai principi della fraternità universale e dello sviluppo solidale. In conclusione, l’attività economica – nelle sue articolazioni private e pubbliche, nazionali e internazionali, fiscali e monetarie – è chiamata a diventare sempre più un luogo di alleanza tra diritto e alterità, tra giustizia e gratuità, tra istituzione e persona. Il compito del giurista e del decisore pubblico è quello di custodire e sviluppare una architettura normativa che renda possibile questa alleanza: un’architettura nella quale la libertà economica non sia sacrificata, ma orientata; nella quale il potere fiscale non degeneri in arbitrio, ma sia esercitato con rigore e misura; nella quale la moneta non sia strumento di dominio ma di fiducia; nella quale la proprietà pubblica sia gestita come bene ricevuto in custodia e non come preda; nella quale, infine, la dignità di ogni persona e la vocazione dei popoli a camminare insieme non siano solo proclamate, ma trovino riscontro in istituzioni e politiche che, nel concreto, restituiscono a tutti la possibilità di partecipare a una vita sociale giusta, solidale e realmente umana.