Il discorso di Benjamin Netanyahu alla 79ª Assemblea generale delle Nazioni Unite resterà nella memoria più per le sedie vuote che per le parole pronunciate. L’aula semideserta, svuotata da decine di delegazioni che hanno scelto di abbandonare l’emiciclo o di non entrare affatto, è il simbolo plastico dell’isolamento internazionale in cui Israele si trova oggi. È stato un gesto politico forte: non solo i paesi arabi e musulmani hanno lasciato la sala, ma anche delegazioni europee – tra cui la Spagna – hanno deciso di marcare la distanza con un’assenza concertata.

Di fronte a questo muro di silenzio, il primo ministro israeliano ha scelto la via opposta: rilanciare la retorica della guerra. Con toni minacciosi, ha promesso l’annientamento di Hamas e ha bollato come “suicidio nazionale” la possibilità di uno Stato palestinese. Parole dure, che non solo chiudono la porta a ogni prospettiva di pace, ma che confermano il carattere intransigente del governo più radicale della storia di Israele.

Le contraddizioni del discorso

Netanyahu si è presentato come baluardo della civiltà occidentale contro il terrorismo, paragonando la nascita di uno Stato palestinese a una concessione ad Al Qaeda dopo l’11 settembre. Una forzatura retorica che cancella settantacinque anni di rivendicazioni legittime del popolo palestinese. L’uso strumentale della memoria della Shoah come ultima coartata morale, messa a confronto con i bombardamenti su Gaza che hanno provocato decine di migliaia di vittime civili, mostra la distanza abissale tra la tragedia storica del popolo ebraico e la politica concreta di uno Stato che non accetta di riconoscere un altro popolo.

Alla comunità internazionale Netanyahu ha risposto con dati contestati: milioni di tonnellate di aiuti umanitari, presunti “furti” di Hamas, statistiche sulle vittime che minimizzano la portata del dramma. Ma le stime delle agenzie delle Nazioni Unite e delle ONG indipendenti parlano di fame, malnutrizione e una catastrofe umanitaria senza precedenti.

Un mondo che si stanca

L’episodio di New York dice qualcosa di più profondo: una parte crescente del mondo non intende più essere complice di questa retorica. I governi europei che hanno riconosciuto lo Stato palestinese, i paesi africani che hanno voltato le spalle all’oratore, i giovani che riempiono le piazze americane ed europee con bandiere palestinesi: tutti segnali che Israele non può continuare a ignorare.

Se Netanyahu intende “fare il lavoro sporco per il mondo”, come ha affermato, allora la sua missione appare ormai isolata e incomprensibile. In realtà, il mondo chiede un’altra cosa: giustizia, pace, riconoscimento reciproco.

Lo specchio per l’Africa

Per l’Africa, spettatrice e spesso vittima di logiche di potere analoghe, questo spettacolo all’ONU è un campanello d’allarme. Le guerre combattute “per procura”, il disprezzo per il diritto internazionale, il ricorso sistematico alla forza contro le rivendicazioni dei popoli: sono dinamiche che conosciamo bene. La causa palestinese continua a risuonare in molte coscienze africane perché parla di colonizzazione, di apartheid, di dignità negata.

La voce della Chiesa

Qui risuona con forza il magistero della Chiesa. Giovanni Paolo II, visitando la Palestina nel 2000, parlava del “diritto naturale del popolo palestinese a una patria” e ammoniva che “non ci sarà pace senza giustizia”. Papa Francesco – oggi Leone XIV – ha più volte ribadito che “due popoli hanno diritto a due Stati” e che la pace non è mai frutto della sopraffazione, ma della dignità riconosciuta reciprocamente. La Dottrina sociale della Chiesa, da Pacem in terris a Fratelli tutti, ci ricorda che il diritto dei popoli all’autodeterminazione è parte integrante del bene comune universale.

Per questo, l’immagine dell’aula vuota mentre Netanyahu parlava non è solo un incidente diplomatico: è un atto di resistenza morale. È il segnale che la comunità internazionale, pur tra lentezze e contraddizioni, si rifiuta di legittimare l’idea di una pace costruita sul silenzio dei popoli e sulla negazione dei loro diritti fondamentali.