Il Memorandum con Tripoli prosegue in automatico, mentre le ONG vengono espulse, i naufragi aumentano e l’Europa applaude da lontano. Intanto, un’amichevole a Bengasi mostra quanto facilmente lo sport possa diventare scenografia per i signori della guerra.

Nessuna conferenza stampa, nessun dibattito parlamentare, nemmeno un atto simbolico. Sul rinnovo del Memorandum Italia–Libia è calato il silenzio, denso come la sabbia dei centri di detenzione di Tripoli. La firma del 2017, figlia della stagione Minniti, continuerà a produrre effetti: respingimenti finanziati, cooperazione di sicurezza, addestramento e fondi alle milizie che si auto-definiscono “guardia costiera”. Nessuno ha trovato opportuno mettere in discussione un accordo che ha trasformato la frontiera mediterranea in una barriera armata e i diritti dei migranti in una variabile negoziabile.

Mentre il governo italiano si congratula con sé stesso per l’efficienza nel “contenimento dei flussi”, a Sabratha un altro barcone affonda: morti e dispersi, tra cui bambini. Numeri che ormai non scuotono più i comunicati ufficiali. In parallelo, Medici Senza Frontiere viene invitata a “lasciare gentilmente” la Libia. Non è l’unica: altre nove organizzazioni internazionali hanno dovuto chiudere. Chi soccorre viene visto come intruso; chi respinge, come partner.

È in questo contesto che arriva l’“amichevole” dell’Inter a Bengasi. Tre milioni a squadra per una passerella davanti a Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, accusato dall’ONU di sparizioni forzate, torture e repressione sistematica. “Coppa della ricostruzione”, l’hanno chiamata. Ricostruzione di cosa? Della reputazione di un regime. È sportwashing a cielo aperto, e il pallone rotola su un terreno dove i diritti umani vengono falciati come erba sintetica.

Fa specie che proprio l’Inter, nata nel 1908 per affermare l’idea di una squadra aperta al mondo contro i nazionalismi, si presti a celebrare un signore della guerra. Da club internazionale a simbolo dell’internazionalizzazione dei profitti: questo passa il Sahel.

E mentre i riflettori dello stadio illuminano la notte libica, laggiù al confine del deserto i rifugiati sudanesi restano intrappolati nel centro di transito di Agadez, dove l’“umanitario” serve a trattenere, non a proteggere. Perché chiudere gli occhi è parte del gioco. In fondo, come ripete chi governa, “la priorità è la sicurezza”.

Ma sicurezza per chi? Per chi fugge dalla guerra o per chi fa affari con chi la perpetua?

Per chi cerca un futuro o per chi lo blinda dietro recinzioni finanziate dall’Europa?

La memoria corta gioca brutti scherzi. Nel Mediterraneo che fu culla di civiltà, oggi si affonda in silenzio. E mentre l’Europa applaude le sue squadre, la Libia espelle i medici e trattiene i disperati. Il resto sono cori da stadio, che coprono il rumore delle onde e dei manganelli.

Il nome “Internazionale” nacque come promessa di incontro.

Oggi rischia di essere solo un marchio inciso sull’asfalto che porta ai lager costieri.