C’è una nuova forma di inquinamento che la guerra in Ucraina sta lasciando dietro di sé, silenziosa e tenace come il dolore: i fili di fibra ottica dei droni militari, distesi per chilometri tra boschi, campi e cespugli. Sembrano ragnatele, sottili e lucenti, ma sono il segno materiale di una ferita che si allarga, invisibile, dentro la terra e dentro la vita che vi abita.
Nel lessico asettico della tecnologia bellica, si chiamano tethered drones: velivoli guidati da cavi di fibra ottica invece che da onde radio. Una soluzione ingegnosa, si dice, per aggirare le contromisure elettroniche, per rendere più precisi gli attacchi, più efficiente la guerra. Ma, come spesso accade, la precisione militare non coincide con la giustizia della vita, e dietro ogni innovazione tecnica si nasconde una nuova ferita inflitta al pianeta.
Le immagini diffuse dagli osservatori ambientali mostrano foreste dell’oblast di Luhansk attraversate da fili che pendono dagli alberi come rimasugli di un’enorme tela. Ogni drone — russo o ucraino — ne stende chilometri, e una volta caduto, il cavo resta. Il vento li attorciglia ai rami, gli animali vi si impigliano, le piogge li trascinano nei fiumi. Sono reti di plastica ad alta resistenza, fatte per non rompersi, e proprio per questo destinate a restare per secoli.
Secondo gli scienziati del Conflict and Environment Observatory, questi cavi polimerici rilasceranno lentamente micro e nanoplastiche, particelle quasi eterne che entreranno nel suolo, nelle acque, e infine nella catena alimentare. Gli uccelli migratori li trovano lungo le rotte, si feriscono, ne restano avvolti. Alcuni hanno già imparato — con quella resilienza che a volte somiglia alla disperazione — a intrecciarli nei nidi. La natura, ancora una volta, cerca di assorbire la guerra, di metabolizzarne gli scarti, ma non sempre ci riesce.
È un paradosso tragico: mentre la guerra brucia in ore e giorni, l’inquinamento che produce durerà secoli. Un tempo in cui le generazioni future si troveranno a fare i conti con ciò che oggi sembra solo un dettaglio tecnico, un costo collaterale, una “scoria” della strategia. Ma nulla è collaterale quando si tratta di vita.
Nel dopoguerra ucraino — quando si parlerà di ricostruzione, di rinascita delle città, di nuove strade e scuole — servirà pensare anche a questo: alla riconciliazione ecologica. La bonifica non potrà riguardare solo le mine o i palazzi distrutti, ma anche queste “reti di silenzio” che il conflitto ha steso sulla natura. Occorrerà un lavoro di cartografia ambientale, di recupero, di ripristino, perché la memoria non sia solo umana, ma anche naturale.
E poi ci sarà da interrogarsi su una questione più profonda: fino a che punto la guerra può appropriarsi della terra e trasformarla in campo di esperimenti? Ogni innovazione bellica — anche la più “pulita”, anche la più digitale — lascia residui, e i residui non sono mai neutri. Sono scorie di dolore, frammenti di una logica che considera l’ambiente come strumento e non come casa.
Nella fibra ottica che guida un drone si riflette la contraddizione della nostra epoca: un progresso che sa calcolare tutto tranne le sue conseguenze.
Mentre i fili si impigliano agli alberi dell’Ucraina, ci ricordano che ogni guerra è anche una guerra contro il creato — contro quel “giardino” che Dio affidò alla cura dell’uomo e che noi, di volta in volta, consegniamo all’abbandono.
Quando la pace tornerà, accanto alle croci e ai memoriali, ci saranno anche quei fili da raccogliere: scie di plastica che chiedono perdono. Non parleranno, ma diranno tutto.
