Il dramma del Myanmar tra eroismo e interessi geopolitici
Il ritiro delle forze ribelli dalla città simbolo della resistenza anti-giunta riaccende i riflettori sulla guerra civile in Myanmar e sull’ingerenza silenziosa della Cina. Una tragedia ignorata, ma che parla anche all’Occidente.
È il cuore spezzato di un popolo quello che parla dalle rovine di Lashio, città del Myanmar settentrionale che, solo pochi mesi fa, era stata conquistata dalle forze della resistenza. In quella che era stata definita “la più grande vittoria ribelle” della guerra civile esplosa dopo il colpo di Stato militare del 2021, una coalizione di eserciti etnici e formazioni pro-democrazia aveva strappato la città al controllo della giunta militare in una battaglia casa per casa. Più di 500 giovani combattenti erano morti, molti con il volto scoperto della speranza. Eppure, nell’aprile scorso, Lashio è stata riconsegnata senza sparare un colpo.
Un silenzio assordante ha accompagnato il ritiro, e la bandiera della giunta è tornata a sventolare sopra i veicoli militari entrati in città, molti dei quali recavano scritte in cinese.
Dietro questa “resa” improvvisa, c’è un nome che ricorre ovunque: la Cina. Secondo le testimonianze dei leader ribelli e di osservatori internazionali, Pechino avrebbe imposto la restituzione di Lashio per tutelare i propri interessi economici, tra cui strategiche infrastrutture energetiche e progetti della Belt and Road Initiative. Avrebbe bloccato il commercio transfrontaliero, interrotto l’energia e la connessione Internet, e perfino arrestato il comandante del gruppo ribelle Kokang, dopo che questi aveva varcato il confine.
“La Cina dice di non interferire negli affari interni del Myanmar, ma a Lashio ha gestito tutto direttamente”, denuncia Ni Ni Kyaw, portavoce dell’Esercito Popolare di Liberazione.
Per chi ha combattuto – e perso – per la libertà della città, è una ferita che brucia più delle armi. “Quando ho visto i veicoli entrare, con simboli cinesi e militari della giunta, ho pianto per mio cugino morto in battaglia”, ha raccontato un medico fuggito dal regime.
Il Myanmar dimenticato
La guerra civile in Myanmar, iniziata dopo il colpo di Stato militare del 1° febbraio 2021, è oggi uno dei conflitti più gravi e dimenticati del pianeta. Oltre 3.000 civili uccisi, città distrutte dai bombardamenti aerei, bambini massacrati nelle scuole, e una popolazione costretta alla fuga. La giunta militare ha perso il controllo di oltre la metà del territorio, ma mantiene le principali città, porti e aeroporti. Il potere le è garantito anche da forniture militari – inclusi droni – provenienti dalla Cina.
A fronte di una resistenza divisa e armata in modo rudimentale, i generali rispondono con raid aerei quotidiani. La recente tragedia nella regione di Sagaing, dove un attacco aereo ha colpito una scuola uccidendo 22 bambini e due insegnanti, è solo l’ultimo episodio.
“La Cina ha armato per anni sia la giunta che i gruppi ribelli”, ricorda l’analista David Mathieson. “Il suo obiettivo non è la pace, ma la tutela dei propri interessi”.
Geopolitica contro umanità
Nel pieno della crisi, il presidente cinese Xi Jinping ha incontrato a Mosca il generale Min Aung Hlaing, leader del golpe, assicurando il sostegno alla “stabilità e integrità territoriale del Myanmar” e alla sicurezza degli investimenti cinesi. Parole che, nella pratica, si sono tradotte nel ritiro forzato dei ribelli da Lashio, mentre la giunta tornava a bombardare con il tacito consenso del gigante asiatico.
La storia del gruppo Kokang, composto da etnia cinese Han, è emblematica: dopo aver liberato Lashio e catturato tre generali, hanno ricevuto il messaggio chiaro che la Cina non avrebbe permesso ulteriori “instabilità” nella zona dei suoi oleodotti. E così è arrivata la resa.
Quando il potere calpesta i sogni
Lashio non è solo una città. È diventata simbolo di ciò che accade quando il sogno di libertà viene soffocato dal peso degli interessi geopolitici. I giovani che hanno combattuto e perso la vita per liberarla sono stati traditi due volte: dalla giunta militare e dal silenzio internazionale. Il “non interventismo” cinese, di fatto, ha orchestrato l’abbandono di una delle poche vittorie della democrazia in Myanmar.
In questo conflitto dimenticato, la Chiesa cattolica ha alzato più volte la voce, sia in Myanmar che in Vaticano. Papa Francesco ha pregato e parlato apertamente per la pace e la riconciliazione, visitando il Paese nel 2017, ma oggi le immagini di bambini morti e città bombardate interrogano ancora l’umanità intera.
Cosa ci resta?
In un’epoca in cui la politica estera è spesso cieca davanti alla sofferenza, la storia di Lashio ci chiede da che parte stiamo. È il tempo della diplomazia del Vangelo, che ascolta il grido degli ultimi. È il tempo di invocare la pace non come parola astratta, ma come giustizia per chi ha perso tutto, anche la speranza.
E per noi cristiani, europei, occidentali, è il tempo di non chiudere gli occhi. Perché quello che non si sa non si fa. Ma quello che si sa e si ignora, è una colpa.