La politica estera di Donald Trump è spesso descritta come impulsiva, populista, sovranista. Ma c’è un fattore più profondo, strutturale, che ha trasformato il comportamento degli Stati Uniti sulla scena internazionale negli ultimi quindici anni: il petrolio. La rivoluzione dello scisto — con le sue innovazioni nella fratturazione idraulica e nella perforazione orizzontale — ha convertito gli USA dal principale importatore al primo esportatore mondiale di petrolio e gas. Un cambiamento epocale che ha ridisegnato l’identità strategica americana: da egemone liberale a petrostato riluttante, sempre più simile a Russia e Arabia Saudita, sempre meno a un garante dell’ordine globale.

Questa transizione energetica ha coinciso con l’ascesa politica di Trump, ma non è riducibile al suo stile personale o alla sua retorica “America First”. Essa riflette un mutamento materiale della base del potere statunitense. Finché gli USA erano dipendenti dal petrolio altrui, avevano interesse a tutelare le rotte marittime globali, a cooperare nei forum multilaterali, a stabilizzare i mercati. Oggi che ne sono esportatori dominanti, gli incentivi sono cambiati: conta meno la stabilità, più la leva contrattuale. Ed è proprio questa leva che l’amministrazione Trump ha esercitato per ottenere concessioni da partner storici, come l’Europa, sempre più dipendenti dal gas liquido statunitense dopo la crisi ucraina.

Come altri petrostati, gli USA cominciano a mostrare tratti preoccupanti: una crescente tendenza all’unilateralismo, al protezionismo economico e alla militarizzazione della politica energetica, con un calo degli investimenti nella diplomazia multilaterale. La logica è quella del mercato del venditore, dove chi ha il petrolio detta le condizioni, anche agli alleati. Non è un caso se, durante il secondo mandato Trump, Washington ha rallentato le nomine all’Organizzazione Mondiale del Commercio, ritirato l’appoggio a istituzioni internazionali e imposto tariffe punitive in nome del “dominio energetico”.

Questo cambiamento ha implicazioni globali. I combustibili fossili rappresentano ancora più di un terzo del commercio marittimo mondiale e la loro continuità è essenziale per l’economia industriale e agricola. In un contesto del genere, la stabilità geopolitica dovrebbe essere un bene comune da difendere insieme. Ma per gli Stati Uniti diventati petrostato, la sicurezza energetica è una questione interna, non più globale. Come dimostra il caso del Mar Rosso, in cui il vicepresidente JD Vance ha candidamente sostenuto che a proteggere le rotte marittime debba pensarci l’Europa, non più l’America.

Il paradosso è che la forza energetica americana — e il suo effetto drogante sulla politica interna — rischia di indebolire proprio quel sistema multilaterale da cui Washington ha storicamente tratto il suo potere strategico. Il petrolio genera influenza, ma anche corruzione, miopia e instabilità, come mostrano le traiettorie di altri grandi esportatori. Anche negli Stati Uniti, l’industria degli idrocarburi ha dirottato la politica ambientale, limitato le regole sulle emissioni e finanziato campagne elettorali repubblicane. L’effetto di lungo periodo è una “malattia olandese” americana: dollaro forte, industria debole, isolamento crescente.

Trump cavalca queste contraddizioni: promette trivellazioni illimitate e prezzi bassi del petrolio, favorisce l’industria fossile ma disincentiva gli investimenti strutturali. La sua politica è segnata da un’instabilità tipica dei petrostati: alta retorica, basso rendimento. E mentre cerca di massimizzare i profitti interni nel breve periodo, rischia di compromettere il ruolo internazionale degli Stati Uniti nel medio-lungo periodo.

Il punto non è solo se Trump vincerà un secondo mandato: è se l’America continuerà a comportarsi da petrostato, disallineandosi sempre più dal modello cooperativo e liberale che l’ha resa una superpotenza globale. Finché l’egemonia energetica sarà usata come leva di dominio anziché come responsabilità condivisa, il mondo sarà sempre più fragile — e gli Stati Uniti sempre più soli.