Una svolta drammatica ha scosso il fragile equilibrio del Medio Oriente. All’alba di domenica 22 giugno, gli Stati Uniti hanno colpito con bombardieri B-2 e missili da crociera tre dei più sensibili siti nucleari iraniani: Fordo, Natanz e Isfahan. Per la prima volta, Washington è entrata direttamente in guerra al fianco di Israele contro l’Iran, nel momento più delicato da anni nel quadrante mediorientale.
Il presidente Donald Trump, nel suo discorso dalla Casa Bianca, ha dichiarato di aver ordinato l’operazione per “cancellare completamente e totalmente” la capacità di arricchimento dell’uranio dell’Iran, definito “il bullo del Medio Oriente”. Parole dure, accompagnate da un chiaro ultimatum: “Se non fanno la pace, gli attacchi futuri saranno molto più grandi e più facili”.
Una retorica che rievoca scenari da guerra fredda, ma con un’escalation reale che ora coinvolge attivamente una superpotenza, spalanca interrogativi sulla tenuta delle alleanze e avvicina lo spettro di un conflitto regionale allargato.
Un attacco senza precedenti
Il raid americano è stato compiuto con l’uso di bombe “bunker buster” GBU-57 da 30.000 libbre, capaci di penetrare le fortificazioni sotterranee dei siti nucleari. È la prima volta che queste armi vengono impiegate in combattimento.
Fonti militari parlano di un’operazione coordinata con Israele. Gli Stati Uniti hanno utilizzato anche sottomarini lanciando 30 missili cruise. Tutto è avvenuto nel giro di 37 ore, con voli diretti dalla base nel Missouri. L’obiettivo dichiarato: impedire che Teheran raggiunga la soglia della bomba atomica.
Ma dietro l’azione militare, resta una profonda ambiguità diplomatica. Le Nazioni Unite, per bocca del segretario generale Guterres, hanno espresso “profonda preoccupazione”, mentre le agenzie internazionali non hanno confermato danni irreversibili né fughe radioattive.
La risposta iraniana e lo spettro della guerra totale
Teheran ha risposto con una raffica di missili verso Israele, ferendo diverse persone. Ma la sua posizione ora è incerta. I vertici del regime, secondo fonti interne, sono rifugiati in bunker e comunicano tramite canali riservati. Il ministro degli Esteri Araghchi, in Turchia per colloqui, ha definito gli attacchi “oltraggiosi” e ha rivendicato il diritto all’autodifesa, accusando Washington di violare il diritto internazionale.
La reazione iraniana è attesa, temuta, ma per ora contenuta. Colpire duramente gli americani significherebbe innescare una guerra dalla quale potrebbe uscire devastata. Ritirarsi, però, equivarrebbe a una resa strategica, un’umiliazione politica.
Le opzioni di Teheran sono tutte rischiose: chiudere lo Stretto di Hormuz, attaccare le basi americane, colpire i partner regionali. Le milizie filo-iraniane, in particolare gli Houthi nello Yemen, potrebbero essere usate come strumenti di guerra asimmetrica.

Un Medio Oriente sempre più fragile
L’attacco americano è arrivato otto giorni dopo l’operazione a sorpresa di Israele, che aveva già colpito siti strategici, generando centinaia di morti, anche civili. Le immagini delle case sventrate a Isfahan, dei condomini crollati a Haifa e delle sirene che suonano a Tel Aviv hanno un sapore inquietante, quasi da apocalisse quotidiana.
Oltre 40.000 soldati americani si trovano nella regione. L’evacuazione degli americani da Israele è già cominciata. Il rischio che il conflitto diventi regionale è più che concreto. Corea del Sud, Turchia e paesi arabi monitorano la situazione. Cina e Russia, alleati strategici dell’Iran, osservano in silenzio, ma con preoccupazione.
Un atto unilaterale? Le critiche a Trump
Negli Stati Uniti, il Congresso non è stato consultato. I democratici e alcuni repubblicani hanno criticato la decisione come “una scommessa massiccia” e “priva di strategia”. Il senatore Jack Reed ha detto: “È più facile iniziare una guerra che finirla”.
Le critiche convergono su un punto: l’Iran non aveva ancora varcato la soglia per costruire una bomba. Secondo i servizi d’intelligence, era ancora distante da un’arma funzionante. Allora perché colpire ora?
Trump risponde che era l’unico modo per “neutralizzare una minaccia”. I suoi sostenitori lo celebrano come l’uomo che ha fatto ciò che i suoi predecessori non hanno osato. Ma il futuro dirà se questa è stata un’azione risolutiva o una scintilla che accenderà un nuovo inferno.

La voce della pace, che tace
In tutto questo, la voce dei popoli è soffocata dal rumore delle bombe. Le Chiese cristiane chiedono silenziosamente prudenza e negoziato, ma vengono ignorate. Il Papa emerito, prima della sua morte, aveva detto: “Non ci sarà mai pace vera se non si ascolta il grido delle madri e dei bambini.” Il suo successore, Leone XIV, si appresta a intervenire nei prossimi giorni, ma il rischio è che l’appello alla pace arrivi in mezzo alle macerie.
Un mondo sull’orlo
Il bombardamento dei siti nucleari iraniani da parte degli Stati Uniti ha segnato un punto di non ritorno. La diplomazia è sotto scacco. La guerra è diventata una realtà dichiarata. E il popolo iraniano, come quello israeliano, paga il prezzo più alto. Come cristiani, come cittadini, non possiamo restare spettatori.
È il tempo della preghiera, del discernimento e della responsabilità politica. O si ritorna alla ragione, o la notte che ha inghiottito Fordo e Natanz si estenderà su tutto il mondo.
