Un Paese che dice di proteggere chi racconta la verità e poi prova a zittirlo è un Paese che ha paura di guardarsi allo specchio. Le parole di solidarietà per l’attacco a Sigfrido Ranucci svaniscono davanti ai tentativi di fermare Report. E quando il potere si commuove in pubblico e censura in privato, non è difesa dell’ordine: è la paura di essere visti per ciò che si è.

Solidarietà a Sigfrido Ranucci per la bomba sotto l’auto. Tweet solenni, condanne indignate, mano sul cuore e voce rotta: attacco gravissimo alla libertà di stampa, alla democrazia, al giornalismo investigativo.

Poi passa un giorno — e la mano che applaude la libertà stringe la museruola. Si spegne la candela, si accende la diffida: fermate Report, bloccatene la puntata, non si osi raccontare l’affare Sangiuliano né le mail scomode che scottano sul tavolo del Garante.

Le lacrime non erano per il giornalista sotto attacco: erano per la sceneggiatura.

Ci voleva poco, del resto, per capirlo: il copione è sempre quello. Si piange davanti alla telecamera e si lima il bavaglio dietro l’angolo del potere.

La scena: solidarietà pubblica, censura privata

Agostino Ghiglia, membro dell’Autorità garante, chiede alla Rai di non trasmettere la puntata che espone il suo giro di incontri pre-multa con la famiglia Meloni. Non un ladro di galline, ma un controllore pubblico che tenta, con la grazia di una ruspa, di controllare anche chi controlla lui.

Il messaggio? Trasparenza sì, ma solo quando riguarda gli altri.

E mentre Ranucci denuncia “tentativo di bavaglio”, nessuno a palazzo arrossisce. Anzi, scatta la retorica del martire privato inseguito dagli hacker e dai pedinatori immaginari.

Ipocrisia di Stato, versione prime time

Ieri: “Attacco inaccettabile alla libertà di stampa, siamo vicini a Ranucci”.

Oggi: “Bloccate Ranucci, difendiamo la privacy del potere”.

È il nuovo patriottismo della libertà vigilata: premiare la stampa purché non faccia giornalismo.

Rai servizio pubblico? Sì, del pubblico… istituzionale.

E guai a chi chiama le cose col loro nome: censura.

Meglio “diffida tecnica”, “tutela della corrispondenza”, “ordine per il bene della nazione”.

Linguaggio da manuale: raffinato abbastanza da sembrare democrazia, duro abbastanza da suonare minaccia.

Il problema non è Report. È la memoria del Paese

Perché il potere, oggi, teme più l’archivio che la piazza.

Non teme i fischi: teme i file.

Non teme il dissenso rumoroso: teme i documenti silenziosi.

E sì, il paradosso è totale: difendere la democrazia imbavagliando chi la racconta.

Lacrime di coccodrillo: salate in pubblico, utili in privato.

L’unico fatto chiaro?

La bomba sotto l’auto di Ranucci non ha fatto esplodere la coscienza del governo.

Ma la sua penna, quella sì, continua a essere un ordigno troppo pericoloso.

In fondo, in questa Repubblica della vernice patriottica, il giornalista non è un cane da guardia del potere:

è un fastidio da addestrare.

E finché Report resta in onda, l’Italia resta almeno in parte sveglia.

Ed è questo che, evidentemente, fa più paura di qualsiasi ordigno.