Quando la scuola diventa teatro di morte, siamo tutti chiamati a interrogarci: non solo sulle armi, ma sulle ferite dell’anima che troppo spesso lasciamo senza cura

Graz, Austria. Una città tranquilla, un giorno qualunque. Poi gli spari, il panico, i corpi a terra. Otto vittime – sette studenti e un adulto – in una scuola del centro cittadino, nella Dreierschützengasse. Un’altra pagina tragica si aggiunge al lungo elenco di stragi scolastiche. Ma questa volta non siamo negli Stati Uniti. Siamo nel cuore d’Europa.

Il fatto è chiaro, ma il senso ci sfugge. Secondo quanto riportano le autorità austriache, si è trattato di un “amoklauf”, una furia omicida esplosa improvvisamente. Il responsabile, forse uno studente, è morto. La polizia ha messo in sicurezza l’area, i genitori sono stati accolti nello stadio ASKÖ, il ministro dell’Interno si è precipitato sul luogo. Tutti gli apparati hanno risposto con prontezza. Ma nessuno potrà restituire la vita ai giovani che non torneranno più a casa.

Quando le fragilità si trasformano in violenza

Di fronte a tragedie simili, la mente corre subito al modello americano: giovani emarginati, bullizzati, lasciati soli in un sistema dove l’accesso alle armi è più facile del dialogo. In Europa, però, questo genere di eventi è più raro – e proprio per questo più destabilizzante.

Eppure, anche da noi si sta diffondendo un terreno fertile per il disagio giovanile estremo: solitudini croniche, dipendenze digitali, famiglie assenti o frammentate, bullismo sistematico, identità smarrite. In più, un certo nichilismo culturale che ha tolto senso alla vita e fiducia negli adulti.

I segnali ci sono sempre. Ma spesso li vediamo solo dopo.

Il dramma del bullismo: la violenza che cova in silenzio

In troppi casi, i giovani che compiono queste stragi sono stati vittime prima che carnefici. Vittime di un clima scolastico che premia i forti e umilia i fragili. Vittime di parole che feriscono più delle pistole. Vittime di un’educazione che non educa all’empatia.

Il problema non è solo la violenza eclatante, ma quella invisibile e quotidiana. E spesso, di fronte ai sintomi del disagio, il sistema reagisce con indifferenza, o peggio, con sarcasmo. Poi ci si indigna quando è troppo tardi.

Non si tratta di giustificare l’ingiustificabile, ma di prevenire con serietà, ascoltando i silenzi, leggendo i disegni, decifrando gli sguardi. La scuola – come la Chiesa – deve tornare ad essere una comunità generativa, non una giungla competitiva.

Papa Francesco e la cura dei giovani invisibili

Non è un caso se Papa Francesco ha più volte alzato la voce contro una società che “scarta” i giovani più fragili, relegandoli in periferie esistenziali. Nelle sue parole rivolte agli educatori, agli insegnanti, ai pastori, ritorna il monito a “toccare le ferite dei giovani con la mano del cuore”.

Il giovane che arriva a compiere un gesto così estremo è sempre anche figlio di un’assenza, specchio di un fallimento collettivo. Non basta piangere dopo. Serve un’alleanza educativa reale, stabile, comunitaria. Serve una Chiesa e una scuola che non si limitino a trasmettere contenuti, ma che stiano accanto. Che ascoltino. Che abbraccino.

L’Europa non è immune

La strage di Graz ci dice che l’Europa non è immune. Che anche da noi i giovani vivono un vuoto che può riempirsi di odio. Che la cultura della competizione, dell’individualismo, del silenzio emotivo produce una bomba a orologeria. E che la scuola, per essere veramente luogo di crescita, deve essere prima di tutto luogo di riconoscimento e accoglienza.

In memoria delle vittime, un impegno

I nomi di quei ragazzi austriaci, le loro vite spezzate, non possono restare numeri. Non possiamo solo indignarci e poi dimenticare. Ogni comunità – ecclesiale, civile, scolastica – è chiamata a rinnovare il proprio patto educativo. Le parole chiave? Prevenzione, prossimità, partecipazione.

Insegnare ai giovani a vivere e non solo a sopravvivere, a non vergognarsi delle lacrime, a non rispondere con la vendetta, ma con la parola, con l’arte, con la fede.

In un mondo che fabbrica armi e non cura le anime, essere cristiani significa anche essere custodi di ogni giovane che Dio ci affida. Anche quello più silenzioso. Anche quello che non ci guarda mai negli occhi.