Un nuovo anno scolastico prende il via. Le cronache insistono su divieti e novità: stop agli smartphone in classe, esame di maturità aggiornato, prime linee guida per l’uso dell’intelligenza artificiale. Tutto utile, tutto interessante. Ma resta il dubbio: stiamo davvero toccando il cuore del problema?

Perché la scuola, prima ancora che un luogo di istruzione, è un laboratorio di vita. E la vita, per reggersi, ha bisogno di una ragione forte. Non bastano le connessioni digitali né i progetti extra; a un ragazzo, in fondo, interessa sapere se vale la pena alzarsi ogni mattina, se c’è qualcuno che lo guarda e lo prende sul serio.

Lo si vede anche nei gesti che scandalizzano: studenti che si rifiutano di affrontare l’orale della maturità, o che esplodono in proteste apparentemente immotivate. Sono segnali confusi, certo, ma dicono di un desiderio più profondo. Come nei romanzi di formazione di sempre, dalla Lettera al padre di Kafka fino ai racconti di formazione contemporanei, c’è in gioco la stessa urgenza: trovare qualcuno che aiuti a dare un senso alla fatica di crescere.

Troppo spesso gli insegnanti rispondono: «Non siamo educatori, dobbiamo solo trasmettere competenze». Ma è un’illusione. Il modo in cui si spiega un teorema, si assegna un voto, si commenta un errore, è già educazione. Comunica se la vita è solo un obbligo o se ha dentro un bene che merita.

E non c’è opposizione tra rigore e attenzione alla persona. Una scuola che non sfida i ragazzi al massimo livello tradisce la sua missione. Ma allo stesso tempo, una scuola che ignora la storia personale di chi ha davanti, è destinata a fallire. La vera eccellenza nasce dall’incontro delle due cose: il rigore che incoraggia, l’attenzione che esige.

Ne ho avuto prova da una lettera scritta da uno studente a un compagno che aveva tentato il suicidio: «Non sono venuto a trovarti perché fossi speciale, ma perché la tua vita mi è affidata. Non mi salva la perfezione, ma il fatto che qualcuno creda in me». Sono parole che raccontano ciò che rende davvero liberi: la certezza di essere voluti bene, anche nelle fragilità.

Per questo, parlare oggi di “stress da rientro” rischia di ridurre tutto a un problema di gestione emotiva. Non sono le tecniche di respirazione a guarire il cuore di un adolescente. Ciò che guarisce è un adulto che, guardandolo negli occhi, gli trasmette con i fatti: «Tu vali, tu sei più grande dei tuoi errori».

La sfida dell’anno che inizia è proprio questa: non accontentarsi di norme o algoritmi, ma restituire speranza. Perché se la scuola non riesce a far intravedere che la vita è un bene, allora nessuna riforma potrà mai bastare. Ma se ci riesce, anche il voto più duro o la regola più severa diventano un passo avanti, non una condanna.