Quando Vladimir Putin ha annunciato — quasi con orgoglio paterno — il successo del test del missile Burevestnik, la “tempesta degli oceani”, ha voluto presentarlo come il simbolo di una Russia invincibile.
Un’arma “unica al mondo”, ha detto, capace di colpire “con precisione garantita” qualsiasi obiettivo sul pianeta. Ma la vera domanda non è se il missile voli davvero per 14.000 chilometri o se possa superare i radar americani. La domanda è un’altra: quanto può sopravvivere un Paese che misura la propria grandezza nella capacità di distruggere il mondo intero?
Un’arma che porta con sé la scoria della paura
Il Burevestnik è un missile a propulsione nucleare, teoricamente in grado di restare in volo per giorni, mutando rotta per eludere le difese nemiche.
È, di fatto, un ordigno che vola con un piccolo reattore atomico a bordo.
Ciò significa che, a differenza dei vettori convenzionali, lascia scorie radioattive lungo la sua traiettoria — e ogni test, anche “di successo”, comporta un rischio di contaminazione.
Nel 2019, un fallimento durante un recupero nel Mare di Barents provocò una nube radioattiva e la morte di diversi tecnici russi. È un promemoria di quanto l’arma, più che “invincibile”, sia intrinsecamente pericolosa per chi la usa.
Sotto la retorica del primato tecnologico si nasconde un ritorno alla logica della guerra totale: non più la deterrenza basata sulla minaccia, ma la minaccia travestita da deterrenza.
Il rischio per l’Ucraina e per tutti noi
In termini strategici, il Burevestnik non cambia la guerra in Ucraina.
La sua portata intercontinentale lo rende irrilevante sul campo tattico e persino contro obiettivi europei, per i quali la Russia dispone già di missili ipersonici più maneggevoli (come l’Avangard o il Kinzhal).
Il vero effetto di questa prova è psicologico e politico: mostrare che Mosca è disposta a tutto pur di non apparire debole nel momento in cui il conflitto con Kyiv entra nella sua fase di logoramento.
Ma la presenza di un’arma a reattore nucleare nei cieli — anche solo in test — aumenta il rischio ambientale per il Nord Europa e per l’Artico, e dunque anche per l’Ucraina, già devastata da due anni di bombardamenti e da infrastrutture energetiche fragili.
Un errore tecnico o un incidente potrebbe equivalere a un “mini Černobyl” itinerante.
Un bluff geopolitico più che una rivoluzione militare
Molti analisti occidentali ritengono che il Burevestnik sia, in larga parte, un bluff strategico.
Le informazioni sulle sue prestazioni provengono solo da fonti russe, e non esiste alcuna prova indipendente del volo di 14.000 chilometri in 15 ore.
Gli Stati Uniti e la NATO, che lo designano come SSC-X-9 Skyfall, hanno sempre considerato il progetto instabile, costoso e quasi impraticabile.
Putin lo rilancia oggi non per preparare un attacco, ma per rilanciare una narrazione: quella di una Russia capace di risorgere dalle sanzioni e dalla stagnazione tecnologica, contrapponendo la potenza atomica al fallimento economico.
È la logica dello spettacolo nucleare, che sopravvive a ogni regime e che oggi trova un nuovo palcoscenico nella guerra ibrida e nei social media.
Trump, Putin e la fede nella forza
Il fatto che Donald Trump, tornato alla Casa Bianca, tenti di negoziare con Putin imponendo sanzioni e promesse di pace “rapida”, aggiunge un ulteriore paradosso: due leader che parlano di pace con il linguaggio della potenza.
Il cristianesimo politico che entrambi evocano nei discorsi pubblici — l’uno ortodosso e imperiale, l’altro evangelico e nazionalista — sembra svuotato di Dio e pieno solo di se stessi.
È la fede nel missile, non nella misericordia.
La Dottrina sociale della Chiesa, dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII alla Fratelli tutti di Papa Francesco, ha sempre denunciato questa illusione: “Non c’è vera pace dove l’uomo si affida alla paura anziché alla fiducia.”
Il Burevestnik, in questo senso, è un simbolo teologico prima ancora che militare: l’uomo che torna a credere nel fuoco, non nello Spirito.
Una potenza che non sa più cosa significa vincere
Il paradosso è che la Russia presenta il Burevestnik come un’arma “precisa”.
Ma la precisione, in un’arma nucleare, è un concetto vuoto: non si tratta di “colpire un bersaglio”, ma di avvelenare un ecosistema.
Non esiste un uso “chirurgico” della radioattività.
L’arma che dovrebbe rendere Mosca invulnerabile potrebbe invece diventare il suo simbolo di impotenza: la confessione di un potere che non sa più come vincere senza distruggere tutto.
Una “profezia rovesciata”
Il nome Burevestnik, in russo, significa “uccello della tempesta” — lo stesso che nella poesia di Maksim Gor’kij annuncia il temporale che porterà la rivoluzione.
Oggi quella tempesta non è più libertà, ma vertigine di onnipotenza.
Ogni volta che un missile vola per quattordicimila chilometri sopra un mondo già ferito, il Vangelo del perdono viene coperto dal rombo del titanio.
Eppure, anche in questo scenario cupo, resta vera la parola dei profeti:
“Spezzate le spade e costruite vomeri” (Is 2,4).
Finché non torneremo a crederci, anche le nostre armi “precise” continueranno a colpire alla cieca — soprattutto chi le costruisce.
