Omelia di Leone XIV per la S. Messa di Natale
«Prorompete insieme in canti di gioia». L’omelia di Leone XIV per la Messa del giorno di Natale si apre con un imperativo che non ignora le rovine, ma le attraversa. Il profeta Isaia parla a una città da ricostruire, e il Papa assume senza attenuarla questa cornice: la gioia cristiana non nasce dall’assenza delle ferite, ma dall’annuncio che le raggiunge. I piedi del messaggero sono belli perché feriti, perché hanno percorso strade dissestate portando una parola che fa rinascere ciò che sembrava perduto. È già qui la chiave dell’omelia: la pace esiste ed è in mezzo a noi, anche quando nessuno sembra crederci.
Gesù stesso lo aveva detto: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace». Ma Leone XIV insiste subito sulla differenza: non è la pace del mondo. La pace di Cristo non si impone dall’esterno, ma si consegna nel “come” del suo venire. È questo “come” che il Papa invita a contemplare, perché lì brilla la differenza divina. Per questo il Natale è festa di canti: non perché tutto sia risolto, ma perché il dono è già all’opera.
Il centro teologico dell’omelia è il Prologo di Giovanni. Il Papa ne offre una lettura sorprendentemente concreta: il Verbo è parola che agisce, parola efficace. Ma nel Natale questa Parola non parla. Si fa carne, e la carne è nudità, fragilità, esposizione. Il Verbo viene come neonato che piange. Qui Leone XIV compie un passaggio decisivo: la carne di Cristo diventa specchio di tutte le carni ridotte al silenzio, di quanti non hanno parola, di chi è spogliato della dignità. La carne chiede cura, invoca accoglienza, desidera parole buone.
«Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto». L’omelia insiste sull’accoglienza come luogo in cui la pace diventa reale. Il dono di Dio non è neutro: coinvolge, espone al rifiuto, strappa all’indifferenza. Il “potere di diventare figli di Dio” resta sepolto finché restiamo distanti dal pianto dei bambini, dalla fragilità degli anziani, dal silenzio delle vittime. Qui Leone XIV riprende esplicitamente Papa Francesco: la tentazione di mantenere una distanza prudente dalle piaghe del Signore è sempre attuale. Ma il Verbo fatto carne chiede di essere toccato nella carne sofferente degli altri.
È in questo punto che l’omelia diventa esplicitamente storica e concreta. Il Papa ricorda le tende di Gaza, esposte al freddo e alla pioggia, le tende dei profughi e dei rifugiati, i ripari di fortuna dei senza dimora. Non come digressione, ma come conseguenza diretta dell’Incarnazione: se il Verbo ha piantato la sua tenda tra noi, allora ogni tenda fragile diventa luogo teologico. Fragile è la carne delle popolazioni inermi, fragile è la vita dei giovani costretti alle armi, fragili sono le coscienze schiacciate dalla menzogna della violenza.
La pace di Dio, afferma Leone XIV, nasce così: da un vagito accolto, da un pianto ascoltato, da rovine che invocano nuove solidarietà. Non è un’idea astratta, ma un processo che inizia quando il dolore dell’altro infrange le nostre sicurezze. È il Logos che continua a dare senso alla storia, chiamando ancora a conversione.
Il Vangelo, però, non nasconde la resistenza delle tenebre. La Parola cammina su strade impervie. Per questo il Natale rimotiva una Chiesa missionaria, chiamata non a servire una parola prepotente, ma una presenza. La missione è movimento verso l’altro, conversazione, ascolto. Il contrario è la mondanità: mettere sé stessi al centro.
L’omelia si chiude con Maria, Madre della Chiesa e Regina della pace. In lei si comprende che nulla nasce dall’esibizione della forza e tutto rinasce dalla silenziosa potenza della vita accolta. È questa la pace del Natale: fragile, reale, già presente, affidata alla responsabilità di chi sa chinarsi davanti alla carne.
