Con l’elezione di Lee Jae-myung alla presidenza della Repubblica di Corea, Seoul volta una pagina drammatica della propria storia politica recente. La vittoria del leader del Partito Democratico non è solo la rivincita dell’opposizione progressista, ma soprattutto il rigetto popolare della deriva autoritaria incarnata dal suo predecessore, l’ex presidente Yoon Suk-yeol, travolto dalla controversa proposta di legge marziale in piena crisi sociale.

Fine anticipata del ciclo conservatore

L’ex magistrato Yoon, eletto nel 2022 su un’agenda pro-mercato e anti-sindacale, aveva progressivamente perso il contatto con la società civile e le nuove generazioni, esasperando tensioni latenti attraverso misure di sicurezza sempre più rigide. La miccia definitiva è stata accesa quando il suo governo ha apertamente ipotizzato la legge marziale per contenere le proteste popolari, cresciute in risposta alla riforma del lavoro, all’aumento della disoccupazione giovanile e a un uso spregiudicato dei servizi segreti interni.

Le proteste sono esplose soprattutto tra gli studenti e i lavoratori precarizzati, simbolo di un paese che vive il paradosso dell’high-tech ma con un tessuto sociale indebolito. La caduta di Yoon è stata rapida: sfiducia parlamentare, defezioni nella sua stessa maggioranza, dimissioni forzate sotto pressione anche internazionale (in primis dagli Stati Uniti).

Lee Jae-myung: un populista progressista

Lee Jae-myung, ex governatore della provincia di Gyeonggi e figura divisiva della sinistra sudcoreana, è emerso come l’unica vera alternativa credibile. Il suo programma ha un sapore quasi neo-keynesiano: rafforzamento del welfare, salari minimi più alti, moratoria sulle privatizzazioni in sanità, rilancio della spesa pubblica per contenere la diseguaglianza generazionale.

Ex operaio, autodidatta, di origini umili, Lee ha costruito la sua narrativa sul contrasto con le élite tradizionali. A differenza dei suoi predecessori progressisti, tuttavia, non è un uomo dell’apparato: è un outsider diventato leader, e ciò ne rafforza la legittimità in un momento di discredito generalizzato della classe dirigente.

La sua presidenza si fonda su un delicato equilibrio: rassicurare Washington, mantenere una postura realista verso Pyongyang, e rinegoziare i margini di autonomia nella regione.

Con la Cina: meno paura, più pragmatismo

Sul fronte cinese, Lee punta a una politica meno muscolare e meno dipendente dalla narrativa securitaria statunitense.

Pur non intendendo abbandonare l’alleanza strategica con gli USA, Lee ha già avviato segnali di distensione con Pechino: rimozione di limiti informali su scambi tecnologici, riapertura di canali culturali e commerciali, dialogo trilaterale con ASEAN e Cina sul Green Deal asiatico.

In sostanza, Lee vuole ridurre la pressione dell’accerchiamento americano e recuperare spazio di manovra economica. È consapevole, però, che la dipendenza tecnologica (soprattutto nei semiconduttori) lo obbliga a non rompere con Washington.

Voci di disgelo con il Giappone… ma senza illusioni

Una delle novità più inattese riguarda voci insistenti di avvicinamento diplomatico con il Giappone, storico rivale e vicino scomodo.

Il disgelo sarebbe mediato da Washington, interessata a un asse Tokyo-Seoul più stabile in chiave anti-cinese. Fonti interne al ministero degli Esteri sudcoreano parlano di un possibile accordo su questioni memoriali (lavori forzati durante il colonialismo giapponese) e su meccanismi bilaterali di difesa condivisa, sul modello NATO-lite.

Tuttavia, il nodo resta storico e identitario: l’opinione pubblica sudcoreana è tutt’altro che pronta a una riconciliazione senza scuse formali da parte giapponese. Lee, da parte sua, non può permettersi di apparire arrendevole, e si limiterà a piccoli passi: cooperazione scientifica, scambi culturali, coordinamento navale nel Pacifico.

Le fragilità strutturali: economia, demografia, diseguaglianza

Il più grande nemico di Lee, però, non è esterno. È l’implosione demografica ed economica della Corea del Sud.

Il paese ha oggi uno dei tassi di fertilità più bassi al mondo (0,72), un mercato del lavoro altamente competitivo ma con una gioventù scoraggiata, e un sistema pensionistico al collasso. A ciò si somma una polarizzazione sociale tra classi urbane iperformate e aree rurali spopolate.

Lee promette un Piano Corea 2030, con investimenti nella natalità, università gratuite, alloggi sociali per giovani coppie e digitalizzazione del welfare. Ma tutto ciò avrà un costo fiscale altissimo, e già i mercati iniziano a storcere il naso.

In sintesi: se Lee fallisce, tornerà l’autoritarismo soft, o peggio, l’anarchia dei populismi senza progetto.

Seoul tra equilibrio e vulnerabilità

Lee Jae-myung non è un rivoluzionario, ma rappresenta una svolta. Non tanto per ideologia, quanto per realismo. Sa che la Corea non può più essere solo il partner fedele di Washington, né la periferia scomoda di Tokyo e Pechino. Deve diventare regista di se stessa.

Ma per farlo, dovrà affrontare non solo le sfide globali, ma la stanchezza della propria democrazia, e una società frammentata tra élite hi-tech e nuove povertà digitali.

Il suo mandato sarà un test per tutta l’Asia democratica.

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