Nell’Aula Paolo VI, gremita di pellegrini in cerca di ristoro dal caldo agostano, Papa Leone XIV ha voluto alzare lo sguardo della Chiesa verso un volto che parla di pace e di amore senza misura: San Massimiliano Maria Kolbe. Rivolgendosi in particolare ai fedeli polacchi, il Pontefice ha ricordato l’atto eroico compiuto dal frate francescano nel campo di concentramento di Auschwitz, quando nel 1941 offrì la propria vita al posto di un padre di famiglia destinato al bunker della fame. «Vi incoraggio a prendere esempio dal suo atteggiamento di sacrificio per l’altro – ha detto il Papa – e a invocare per sua intercessione il dono della pace per tutti i popoli che vivono il dramma della guerra».

Quell’omaggio a Kolbe ha trovato eco commossa nelle parole di Monika Kaiser-Haas, nipote del beato Karl Leisner, sacerdote tedesco morto poco dopo la liberazione, stroncato dalle sofferenze patite nei campi nazisti. «Quando il Papa ha citato Kolbe – racconta – ho sentito che stava includendo tutti: beati, santi, prigionieri anonimi. Tutti quelli che hanno sofferto e sono stati privati di onore, difesa e diritti».

Le storie di Kolbe e Leisner, diverse eppure simili, si intrecciano nella trama oscura del nazismo, dove la fede diventava colpa e la libertà di coscienza un rischio mortale. Kolbe affrontò la morte con il sorriso e con l’“Ave Maria” sulle labbra. Leisner, giovane diacono, fu arrestato per due semplici parole – “Che peccato!” – pronunciate alla notizia del fallito attentato a Hitler. Il regime non perdonava nemmeno una battuta che incrinasse la sua pretesa d’infallibilità.

Nel lager di Dachau, dove era rinchiuso insieme a centinaia di preti e religiosi, Leisner ricevette l’ordinazione sacerdotale grazie alla presenza inattesa di un vescovo francese internato. I compagni di prigionia prepararono la celebrazione come fosse una liturgia in cattedrale: una mitra cucita a mano, un pastorale intagliato, calze rosse lavorate ai ferri. Un gesto di bellezza e dignità in mezzo alla brutalità, segno che la grazia non conosce prigionia.

Oggi, mentre il processo di canonizzazione di Leisner attende il riconoscimento di un miracolo, la sua vita resta un segno limpido per i giovani europei e per chi si interroga sulla vocazione: dono del cielo, sì, ma anche frutto di una fede vissuta con passione e coerenza.

Kolbe e Leisner non sono soltanto pagine di storia: sono due fari che illuminano il presente, ricordandoci che la libertà vera non è fare ciò che si vuole, ma scegliere di amare fino in fondo. Nelle loro celle, nel gelo dei campi di concentramento, la pace ha avuto un volto e un nome. Oggi, come allora, è la pace che Papa Leone XIV ci invita a cercare, custodire e difendere.