C’è stato un tempo, e non è lontano, in cui bastava un palinsesto per raccontare il Paese. Le famiglie italiane si riunivano davanti al TG1 delle 20, l’Arena di Giletti dettava il dibattito domenicale, e Maria De Filippi dava voce ai sentimenti popolari più radicati. Ma oggi quel tempo sembra alle nostre spalle: la televisione generalista, che aveva il potere di unificare e modellare i gusti collettivi, è entrata in una crisi irreversibile, superata da una pluralità di schermi, piattaforme e micro-pubblici. E con essa cambia la sociologia dell’Italia mediatica.
La mutazione è visibile nella frammentazione dei consumi, ma va oltre. Secondo una recente rilevazione Censis del 2024, tra i giovani under 30 meno del 20% guarda un telegiornale in diretta almeno una volta a settimana, mentre oltre il 70% si informa quotidianamente tramite video brevi su TikTok, Instagram e YouTube. L’algoritmo ha preso il posto del palinsesto. Tuttavia, ciò che potrebbe sembrare solo una questione di supporti è in realtà una trasformazione profonda della struttura dell’opinione pubblica. Non c’è più una “agenda setting” centralizzata: ogni segmento della popolazione ha i suoi influencer, le sue fonti, i suoi frame narrativi. La post-televisione è anche post-verità.Ma la sfida è anche interpretativa. In che modo le nuove generazioni costruiscono fiducia nell’informazione? E come si distribuiscono oggi le competenze critiche nei confronti dei media? Le scienze della comunicazione, attraverso le indagini sulla “media literacy”, stanno offrendo risposte interessanti: ad esempio, uno studio dell’Università di Bologna del 2023 ha mostrato che il livello di istruzione è un predittore fortissimo della capacità di discernere notizie verificate da contenuti manipolativi, ma che tale capacità si polarizza anche in funzione delle piattaforme frequentate. In altre parole, non conta solo “quanto” si sa, ma “dove” lo si apprende.In questo contesto, colpisce il ritorno del pubblico popolare ai contenuti verticali, cioè a spazi digitali iper-specifici. Le classi meno scolarizzate non hanno smesso di consumare media, ma si sono ricollocate in ecosistemi paralleli: podcast religiosi, canali YouTube di medicina alternativa, pagine Facebook di quartiere o di denuncia. È l’effetto bolla, non solo ideologico ma anche socio-culturale. Così, la comunicazione perde la funzione che aveva nella tradizione della scuola di Francoforte o in quella di Umberto Eco: quella di formare una coscienza collettiva.Eppure non tutto è crisi. I media, anche se frammentati, sono oggi molto più accessibili, dialogici, creativi. Il problema non è l’abbondanza, ma la sua gestione. Un nuovo umanesimo mediale – come invocato da Papa Francesco nella Fratelli Tutti – potrebbe partire proprio da qui: non da una nostalgia del canone televisivo, ma dalla consapevolezza che ogni cittadino è oggi, potenzialmente, emittente oltre che ricevente. La sfida educativa sta nell’abilitare i soggetti a diventare “editori di sé stessi”, senza cadere nella solitudine dell’eco digitale.Se i boomers italiani continuano ad accendere la TV per trovare compagnia, i loro nipoti la evitano per costruirsi identità. È lo stesso gesto, rovesciato. La sociologia dei media ci insegna che in questo mutamento non stiamo solo cambiando abitudini, ma stiamo riformulando le categorie della relazione e della verità. In questo senso, la fine della televisione generalista non è il tramonto di un medium, ma l’alba di una nuova responsabilità comunicativa. E forse anche spirituale.Italia post-televisiva. Sociologia di un pubblico senza palinsesto

Complimenti per la nuova veste editoriale e ancor più per i contenuti di questo mezzo di comunicazione in un tempo in cui i media non sono più liberi , ma sono nella grande maggioranza teleguidati , per far propaganda a chi controlla il meanstream !
Per fortuna una voce libera per la ricerca della verità !
Buon lavoro ! Umberto Squarcia