Gerusalemme – La crisi diplomatica scoppiata attorno ai disegni di legge per l’annessione della Cisgiordania, presentati alla Knesset e poi bloccati dal premier Benjamin Netanyahu dopo le dure critiche degli Stati Uniti, mostra con chiarezza quanto sottile resti la linea tra la politica interna israeliana e gli equilibri regionali. In gioco non c’è solo la sovranità su un territorio, ma la credibilità internazionale di Israele e la tenuta dell’intero mosaico mediorientale che Washington sta cercando faticosamente di ricomporre dopo due anni di guerra a Gaza.

Il voto preliminare del 22 ottobre, che ha visto passare due proposte di annessione — una sull’intera Cisgiordania e l’altra sul blocco di insediamenti di Ma’ale Adumim — è stato interpretato da Netanyahu come una manovra politica dell’opposizione, un atto di provocazione nel mezzo della visita in Israele del vicepresidente statunitense James David Vance. Ma le conseguenze sono andate ben oltre il piano tattico: gli Stati Uniti, con il presidente Donald Trump in persona, hanno reagito in modo secco e inequivocabile. «Israele non farà nulla con la Cisgiordania», ha dichiarato il presidente, ricordando di aver dato la sua parola ai Paesi arabi. Un monito che suona come un avvertimento strategico: la legittimità internazionale di Israele resta indissolubilmente legata alla sua alleanza con Washington.

Il richiamo americano ha avuto effetto immediato. Il 23 ottobre Netanyahu ha ordinato alla sua coalizione di non far avanzare le proposte di annessione, temendo un isolamento diplomatico e un contraccolpo economico. L’episodio ha rivelato la doppia pressione che grava sul premier: da un lato la destra nazionalista e religiosa, che chiede la “sovranità totale” sui territori occupati; dall’altro la necessità di mantenere il sostegno dell’alleato americano e di non compromettere i contatti in corso con diversi Paesi arabi per la costruzione di una forza di stabilizzazione a Gaza.

La reazione dei Paesi arabi, infatti, è stata immediata e compatta. Arabia Saudita, Giordania, Turchia e altri tredici Stati hanno definito l’annessione una linea rossa. La loro dichiarazione congiunta, diffusa sempre il 23 ottobre, ha sottolineato che tale passo “distruggerebbe ogni prospettiva di una soluzione a due Stati”, ossia l’unico orizzonte politico ancora riconosciuto dalla comunità internazionale per il conflitto israelo-palestinese.

È in questo contesto che il segretario di Stato statunitense, Marco Rubio, ha tentato di smorzare i toni, definendo il voto “uno stratagemma politico interno”, mentre insisteva sulla prospettiva di una pace duratura a Gaza e sull’allargamento degli Accordi di Abramo, il progetto di normalizzazione avviato nel 2020. Ma la realtà resta fragile: ogni passo compiuto in Cisgiordania rischia di minare il fragile equilibrio con i partner arabi, soprattutto con Riyad, che aveva sospeso i colloqui di normalizzazione dopo il 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco di Hamas.

L’episodio, al di là delle sue conseguenze immediate, svela la natura instabile del potere israeliano e la crescente distanza tra la logica interna e quella internazionale. La Knesset è oggi il riflesso di un Paese diviso: la destra più radicale brandisce l’ideologia della “terra promessa” come risposta alla paura, mentre il premier deve misurarsi con una comunità internazionale che, pur difendendo il diritto di Israele alla sicurezza, non accetta più la logica dell’occupazione permanente.

Netanyahu lo sa bene. Dopo anni di esperienza politica, conosce il linguaggio del realismo: in pubblico rassicura i suoi alleati interni, ma in privato sa che l’annessione della Cisgiordania non è sostenibile né economicamente, né diplomaticamente, né moralmente.

La sua decisione di frenare i disegni di legge non è un gesto di resa, ma di sopravvivenza politica. Israele, in questo momento, non può permettersi di perdere il sostegno americano né di provocare una rottura con i partner arabi di cui ha bisogno per ricostruire Gaza e per garantire stabilità a lungo termine.

Resta però una lezione più profonda: la politica dell’annessione, anche solo evocata, logora la credibilità di Israele come democrazia. Trasforma una questione di sicurezza in un dogma ideologico e rischia di ridurre la fede biblica nella “terra promessa” a un progetto di dominio. La storia insegna che l’identità di Israele, più che sulla conquista, si fonda sulla memoria e sulla giustizia.

In questo senso, il passo indietro imposto da Netanyahu potrebbe rivelarsi un atto di realismo etico, più che politico.

Forse non per convinzione, ma per necessità, il premier ha riconosciuto che la sicurezza di Israele non nasce dall’annessione di nuovi territori, bensì dal recupero di una fiducia internazionale senza la quale nessuna frontiera sarà mai sicura.