“Abbiamo vinto”. Con questa formula, tanto solenne quanto ambigua, Tel Aviv e Teheran celebrano la tregua siglata dopo settimane di escalation militare e scambi di fuoco diretto tra lo Stato ebraico e la Repubblica Islamica. È una vittoria, assicurano entrambi. Ma se a vincere sono tutti, la domanda legittima è: chi ha davvero perso?

In realtà, questa tregua non è il sigillo di un successo, ma il cerotto diplomatico su una ferita ancora aperta. La retorica di guerra ha consentito a entrambe le leadership di conservare la faccia di fronte alla rispettiva opinione pubblica, ma sotto la superficie mediatica restano intatte molte crepe, politiche e strategiche.

La narrazione israeliana: “abbiamo resistito, abbiamo colpito”

In Israele, il governo Netanyahu ha rivendicato con enfasi il proprio diritto all’autodifesa, presentando l’offensiva su obiettivi iraniani come un’azione chirurgica e necessaria. Ma non ha potuto mascherare completamente le difficoltà vissute sul fronte interno: l’attacco missilistico coordinato lanciato dall’Iran e dai suoi alleati (Hezbollah, milizie irachene e houthi yemeniti) ha effettivamente saturato le difese aeree israeliane, con numerosi impatti a terra, anche in zone sensibili.

Il sistema Iron Dome, pur efficiente, è stato messo a dura prova e in parte aggirato da droni e missili di nuova generazione. A spegnere il fuoco, in senso quasi letterale, sono stati gli Stati Uniti, intervenuti con caccia, radar e mezzi logistici avanzati, senza i quali Israele avrebbe avuto serie difficoltà a contenere l’onda d’urto iraniana.

La versione iraniana: “abbiamo colpito, abbiamo resistito”

Dall’altra parte, Teheran sventola la propria narrativa di potenza: abbiamo colpito il nemico e siamo ancora in piedi. La Repubblica Islamica ha mostrato di poter coordinare una risposta regionale, inviare centinaia di missili, minare l’efficacia dell’ombrello difensivo israeliano e al tempo stesso preservare i propri asset strategici principali.

A chi sperava in un colpo decisivo al cuore del programma nucleare iraniano, la tregua ha lasciato l’amaro in bocca. Le installazioni atomiche sono rimaste sostanzialmente intatte, anche grazie alla loro dislocazione in profondità e alla protezione multilivello sviluppata negli ultimi anni. Non si è trattato di una seconda Natanz o di un replay di Stuxnet. In sintesi: il programma nucleare iraniano è stato rallentato mediaticamente, ma non nella sostanza.

La tregua americana: più necessità che scelta

Alla fine, a spingere per la tregua sono stati soprattutto gli Stati Uniti, consapevoli che un conflitto aperto tra Israele e Iran avrebbe avuto effetti devastanti sull’intera regione – dal Libano alla Siria, dal Golfo al Mar Rosso – e rischiato di compromettere gravemente le presidenziali statunitensi, già cariche di tensione.

Washington ha fornito a Israele il sostegno militare, logistico e tecnologico indispensabile per reggere l’impatto dell’offensiva iraniana. Ma ha anche esercitato pressioni diplomatiche pesanti su Netanyahu affinché non oltrepassasse il punto di non ritorno, evitando un’escalation nucleare e salvaguardando i canali di dialogo ancora aperti con l’Arabia Saudita, la Turchia e il Qatar.

Due vincitori apparenti, una pace sempre più fragile

E così, mentre entrambi i governi annunciano una vittoria per consumi interni, la realtà racconta un’altra storia: nessuno ha davvero prevalso, e il Medio Oriente ha solo guadagnato qualche settimana di respiro prima della prossima fiammata. La tregua è una pausa tattica, non un accordo strutturale. Gli arsenali restano pieni, le tensioni irrisolte, la sfiducia reciproca palpabile.

Nel frattempo, il popolo israeliano vive con l’ansia di nuovi attacchi, e quello iraniano continua a soffrire sotto le sanzioni e l’isolamento internazionale. Sullo sfondo, la questione palestinese rimane irrisolta, anzi dimenticata. Il rischio, come sempre, è che la tregua non sia il preludio della pace, ma l’intervallo tra due guerre.

Se davvero si vuole costruire la pace, bisogna andare oltre le citazioni muscolari e le rivendicazioni autocelebrative. Serve una nuova grammatica diplomatica, fondata non sulla deterrenza militare ma sulla fiducia politica, sulla giustizia e sulla verità. Perché la pace vera non si proclama: si costruisce, giorno per giorno, nelle pieghe della realtà. E non sopravvive al rumore delle armi, ma nel silenzio del coraggio diplomatico.