L’attacco sferrato da Israele alle prime ore del 13 giugno 2025 in territorio iraniano, culminato nell’uccisione del capo delle Guardie rivoluzionarie e nella distruzione selettiva di siti nucleari, segna un punto di non ritorno in uno scacchiere già in fiamme. Non si tratta solo di un’operazione militare, ma di una precisa dichiarazione politica, strategica e ideologica, che chiama in causa l’intera architettura della sicurezza internazionale.
In un contesto dove l’intelligence israeliana aveva stimato che l’Iran fosse in grado di assemblare fino a quindici testate nucleari, l’intervento può apparire, a prima vista, una mossa disperata per evitare l’irreversibile. Tuttavia, dietro la retorica della difesa preventiva si nasconde ben altro. L’attacco è frutto di un crescente senso di impunità da parte dello Stato ebraico, acuito dal silenzio assenso dell’amministrazione statunitense e, in particolare, da una convergenza non ufficiale con Donald Trump, già informato da Netanyahu nei mesi precedenti.
Che si tratti di un’azione concordata, anche se non ufficialmente firmata a due mani, è ormai evidente. Gli Stati Uniti, pur evitando un coinvolgimento diretto per motivi di opportunità diplomatica, restano complici di un’escalation che rischia di incendiare tutta la regione. I negoziati con l’Iran, che da mesi si trascinavano senza sostanza, appaiono ora per quello che erano: un teatro diplomatico per prendere tempo.
Israele ha scelto di forzare la mano, rompendo gli indugi non solo perché si sentiva minacciato — come afferma il governo — ma perché ha deciso di riaffermare la sua centralità strategica nel Medio Oriente con un atto di forza che molti osservatori definiscono senza esitazione “bullismo di Stato”. Invece di consolidare un’alleanza internazionale per una pressione multilaterale sull’Iran, ha agito da solo, ponendosi come giudice, giuria e boia in un conflitto che dovrebbe invece trovare soluzione nel diritto e nella diplomazia.
È legittimo chiedersi: quale alternativa era rimasta a Tel Aviv? Ma è anche doveroso domandarsi a che punto il concetto di “autodifesa” smette di essere tale e diventa aggressione preventiva. In nome della sicurezza, Israele ha oltrepassato il limite di ciò che può essere giustificato in un ordine internazionale fondato sul diritto e non sulla forza.
Qui entra in gioco il giudizio della Dottrina Sociale della Chiesa. La Gaudium et Spes, così come il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa (nn. 497-501), affermano che la guerra non è mai uno strumento legittimo per risolvere controversie tra Stati. La Chiesa non esclude il diritto alla legittima difesa armata, ma lo vincola a condizioni molto rigorose. Ogni guerra, per essere moralmente accettabile, deve rispettare i criteri della “guerra giusta”, tra cui la proporzionalità, l’ultima ratio e la possibilità concreta di successo. Ma soprattutto, la guerra preventiva, ovvero l’attacco lanciato per prevenire una possibile futura aggressione, è stata rigettata dalla Santa Sede con forza già ai tempi della seconda guerra del Golfo. In quell’occasione, san Giovanni Paolo II e i rappresentanti vaticani denunciarono il “grande inganno” delle armi di distruzione di massa attribuite a Saddam Hussein, mai trovate, che giustificò un conflitto devastante e destabilizzante.
Analogamente, oggi, in assenza di un’aggressione in atto da parte dell’Iran — per quanto inquietante sia la sua corsa al nucleare — l’iniziativa israeliana si configura come un uso unilaterale della forza che tradisce i principi fondamentali della comunità internazionale e della morale cristiana. L’azione preventiva, fondata sul sospetto e sulla paura, si rivela terreno fertile per l’arbitrio e la manipolazione politica. La guerra, dice la Chiesa, è sempre una sconfitta dell’umanità (Pacem in Terris, Caritas in Veritate, Fratelli Tutti n. 258).
Questa escalation non può essere letta senza il filtro delle dinamiche interne ai due Paesi. Da una parte, Netanyahu — indebolito internamente dalle proteste e dai dissensi sull’offensiva a Gaza — ha trovato nel nemico esterno una via per ricompattare il fronte interno. Dall’altra, l’Iran vede nell’attacco un’ulteriore conferma della necessità di accelerare il proprio programma atomico e rafforzare la propria influenza regionale.
Il rischio è che si apra una stagione di rappresaglie senza fine. L’uccisione di un alto comandante iraniano non è un dettaglio secondario, ma un affronto diretto a un apparato statale già radicalizzato e pronto a reagire. E se Teheran decidesse di rispondere — come è probabile — allora lo scenario mediorientale potrebbe definitivamente precipitare in una guerra aperta, su più fronti, con il Golfo in bilico e l’Europa spettatrice impotente.
In questo contesto, il silenzio delle grandi potenze è complice. L’ONU balbetta. L’Europa tace. E mentre si moltiplicano gli appelli alla de-escalation, i missili parlano più forte delle diplomazie.
Il 13 giugno 2025 non è solo la data di un’operazione militare. È la fine di un’illusione: quella che la deterrenza bastasse a fermare l’atomica iraniana, quella che i negoziati potessero risolvere un conflitto fondato sull’odio e sulla vendetta, e quella che Israele potesse essere contenuto solo con ammonimenti verbali. È il giorno in cui la forza ha parlato più forte del diritto. E quando questo accade, non si vince una guerra: si perde un mondo.

