Tel Aviv si risveglia nel silenzio, mentre monta l’attesa per la risposta di Teheran. E il Paese si interroga sulla leadership di Netanyahu e sul futuro di una società divisa.
Tel Aviv – La metropolitana è ferma, l’aeroporto internazionale chiuso, i tram immobili. Anche il tempo, nella mattina successiva all’attacco israeliano contro i siti nucleari in Iran, sembra rallentato. Ma sotto la superficie, tutto trema. Il Paese è sospeso tra la paura di ciò che verrà e la consapevolezza di essere entrato in una fase senza ritorno.
Nel centro di Tel Aviv, due adolescenti guardano i sacchetti della spesa come se non servissero più. “Dovevamo andare al corteo, ma è tutto annullato”, dice Yoni, 17 anni. Amit, il suo amico, aggiunge: “Mia madre ci ha detto di restare vicino al rifugio. Ha spento la tv. Vuole solo silenzio”. Attorno, i supermercati si affollano come nei primi giorni della pandemia. Acqua, cibo, batterie. Gli scaffali si svuotano e le voci si abbassano.
L’attacco della notte ha colpito al cuore del programma nucleare iraniano, eliminando figure di vertice del sistema difensivo e scientifico di Teheran. Il premier Benjamin Netanyahu lo ha definito “un’operazione necessaria per la sopravvivenza d’Israele”. Ma tra la popolazione, il clima è ben diverso.
“Gli iraniani stavano accelerando, e non potevamo restare a guardare”, sostiene Elad, 28 anni, riservista in attesa del richiamo. Parla con tono pacato, quasi giustificandosi. “Lo so che ci giudicheranno, ma se non ci difendiamo da soli, chi lo farà?” Poi si volta, come a cercare conferme in un vuoto che non risponde.
C’è chi, invece, non trattiene il disagio. Nava, 54 anni, gestisce una pensione nel quartiere di Florentin. “Sapevamo che stavamo andando verso questo, ma quando succede davvero… ti manca il respiro. Non volevamo un’altra guerra. Non ora. E non con questo governo.” E aggiunge: “Netanyahu parla, ma io non ascolto più. Non ci credo più. Ci stiamo spegnendo dentro, come popolo.”
Una società sfiancata, una leadership in crisi
L’operazione militare segna una svolta anche politica. Il premier israeliano, già sotto pressione per la contestata riforma della giustizia e l’isolamento internazionale crescente, ora affronta una nuova sfida: tenere unito un Paese diviso, impaurito, incerto. Le proteste che negli ultimi due anni avevano riempito le piazze contro la deriva autoritaria del governo sembrano ora trasformarsi in qualcosa di più profondo: sfiducia strutturale, smarrimento collettivo.
Il Paese appare stanco, vulnerabile. Non solo ai missili di ritorno — già intercettati in volo dalla Giordania, con allerta massima su Tel Aviv — ma soprattutto alle domande senza risposta: Quanto durerà? Qual è il piano? Chi decide? E, soprattutto: si poteva evitare?
Le immagini nei telegiornali scorrono veloci: intercettazioni aeree, batterie difensive attivate, ombre di droni, sirene. Sullo sfondo, un premier che appare sempre più solo nel tenere la rotta.
Una sicurezza che scappa… in volo
In queste ore, anche i cieli d’Israele raccontano la tensione. Le principali compagnie aeree nazionali — El Al, Israir, Arkia — hanno spostato decine di velivoli all’estero per metterli al sicuro da possibili attacchi: aerei parcheggiati tra Cipro, Italia, Romania, Spagna. Secondo i dati di tracciamento, almeno 55 aerei israeliani sono stati allontanati dal territorio nazionale. Alcuni sono atterrati a Roma Fiumicino, altri a Milano Malpensa, altri ancora a Bangkok. I voli sono stati eseguiti senza passeggeri. Una mossa difensiva, sì, ma anche simbolica: la normalità ha lasciato il posto alla strategia d’emergenza.
Secondo le autorità aeroportuali, lo scalo di Tel Aviv potrebbe restare chiuso per 3-4 giorni. Una misura eccezionale. E un altro segnale del clima che si respira: quello di una nazione che si prepara al peggio, senza sapere davvero cosa verrà.
La pace possibile, tra prudenza e diritto
Mentre gli alleati osservano con apprensione, anche il giudizio morale pesa. Come ricorda la Dottrina sociale della Chiesa, la guerra è giustificabile solo in caso di legittima difesa e secondo criteri rigorosi: proporzionalità, ultima risorsa, rispetto della popolazione civile. Ogni rappresaglia preventiva — specialmente se elude il confronto diplomatico — rischia di aprire spirali incontrollabili.
Israele si trova ora a un bivio: agire per difendersi, sì, ma senza oltrepassare il limite che separa la sicurezza dalla vendetta, la fermezza dalla distruzione. La comunità internazionale, intanto, attende. Ma anche la società israeliana attende: una parola diversa, una guida che non parli solo di potenza, ma di futuro.
Perché la vera domanda che aleggia, più dei droni e più dei missili, è una soltanto: cosa resterà, dopo?