La propaganda di Putin anestetizza gli orrori della guerra con l’Ucraina in film commedie surreali ambientati sul campo di battaglia e la caserma

Da quando Vladimir Putin ha deciso che l’aggressione all’Ucraina dovesse essere raccontata come una guerra “del popolo”, la propaganda russa ha provato tutte le tonalità possibili: l’epica, il vittimismo, il complottismo, la sacralizzazione patriottica. Ora tenta l’ultima mutazione: la risata. Non una risata liberatoria, ma una risata indotta, programmata, finanziata. La guerra diventa sit-com. Il sangue, una gag. Il trauma, un siparietto.

“L’altro lato della moneta”, serie comica sostenuta da fondi che arrivano direttamente dall’orbita del Cremlino, nasce da un calcolo freddo: il Paese è stanco, i cadaveri tornano a casa, i reduci pure — spesso mutilati, violenti, ingestibili — e la retorica eroica non basta più. Allora si prova a neutralizzare la paura con il sorriso. Se non puoi cancellare la guerra dalla coscienza collettiva, trasformala in intrattenimento.

È un’operazione senza precedenti nella storia recente russa. Nemmeno le guerre di Cecenia — con i loro quartieri rasi al suolo, le “operazioni di pulizia”, i campi di filtrazione, gli stupri e le sparizioni — furono mai raccontate così, con una risata di sottofondo. Allora, paradossalmente, esisteva ancora uno spazio (limitato ma reale) per il racconto giornalistico e per la denuncia. Oggi no. Oggi tutto è immediato, virale, inconfutabile: i crimini circolano sui social in tempo reale. E proprio per questo devono essere anestetizzati.

La commedia serve a questo: a spostare la guerra dal registro della tragedia a quello della quotidianità “simpatica”. La trama è rassicurante: giovani volontari, un comandante burbero ma saggio, la vita di base, il cameratismo. È la guerra come fiction consolatoria, lontanissima dall’esperienza reale dei soldati che tornano — quando tornano — dal fronte ucraino.

Il cortocircuito morale è evidente persino a pezzi del fronte filogovernativo. Quando anche un deputato di Russia Unita parla di idea “immorale”, significa che la forzatura è grossolana. Ma l’indignazione è inutile: in un sistema dove criticare l’esercito può trasformarsi in reato, la risata diventa un obbligo civico. Non ridere, oggi, è sospetto.

Eppure qualcosa scricchiola. Le reazioni indignate sui social russi — quelle vere, non quelle pilotate — dicono che il trucco non convince tutti. Chi ha visto i compagni dilaniati, chi ha tenuto un amico morente tra le braccia, non ride. E non accetta che qualcuno rida al posto suo. La satira di Stato, quando nasce dall’alto e non dal basso, non è mai satira: è derisione delle vittime.

La propaganda può cambiare tono, genere, formato. Può passare dall’epica al cabaret. Ma resta inchiodata allo stesso paradosso: per sostenere una guerra sempre più impopolare deve svuotarla di senso. E così, nel tentativo di renderla “umana”, la rende soltanto più cinica. Perché una guerra che ha bisogno di far ridere per sopravvivere è già, moralmente, una guerra persa.