La Camera Usa ha approvato con i voti repubblicani una legge che vieta i trattamenti farmacologici e chirurgici di transizione di genere per i minori; il provvedimento passa ora al Senato, dove l’esito è incerto. Al di là dell’esito parlamentare, il nodo è più ampio della contrapposizione politica: riguarda il buon senso, la cultura della tutela dell’infanzia e la responsabilità di porre limiti quando sono in gioco scelte irreversibili su corpi e personalità ancora in formazione.

C’è un paradosso che attraversa il dibattito occidentale sulla transizione di genere dei minori: istanze antropologiche corrette – perché radicate nella natura della persona – vengono oggi difese quasi esclusivamente da chi le trasforma in clava politica. Il risultato è duplice e devastante: da un lato il progressismo abdica al suo compito critico; dall’altro la tutela dei più fragili viene sequestrata dai bulli della politica, che confondono la verità con l’arroganza.

Il recente voto della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti sul divieto di trattamenti farmacologici e chirurgici per i minori non è, in sé, una vittoria “di destra”. È piuttosto il sintomo di una desertificazione culturale: quando una questione che riguarda la pubertà, la corporeità, la reversibilità delle scelte e la protezione dell’infanzia viene letta solo come bandiera identitaria, la politica smette di essere discernimento e diventa tifoseria.

È qui che si consuma il suicidio dei democratici. Non perché difendano i diritti – compito nobile e necessario – ma perché hanno progressivamente ridotto la nozione di diritto a volontà soggettiva, recidendo il legame con la natura. Così facendo, hanno consegnato un tema delicatissimo a una contrapposizione binaria: o stai con l’autodeterminazione assoluta, oppure sei un nemico. In mezzo non resta spazio per la prudenza, per la medicina come scienza della cura, per il principio di non maleficenza, per l’asimmetria radicale tra un adulto e un pubere.

Ma questa non è una questione di destra o di sinistra. Non è neppure – come si vorrebbe far credere – una disputa puramente assiologica, di valori soggettivi contrapposti. È una questione ontologica e giuridica: riguarda che cosa sia un corpo in crescita, che cosa significhi maturazione psico-fisica, quale sia il perimetro del consenso informato quando la personalità è ancora in formazione. In breve: riguarda la natura.

La tradizione giuridica occidentale – ben prima del cristianesimo – ha sempre riconosciuto che la legge positiva è giusta solo se non contraddice la legge naturale. E la legge naturale non è una dottrina confessionale, ma il riconoscimento razionale di limiti e finalità iscritti nella realtà umana. Un minore non può votare, non può stipulare contratti irreversibili, non può decidere interventi permanenti sul proprio corpo perché non ne ha la capacità ontologica, non solo giuridica. Negarlo non è progresso: è rimozione del reale.

In questa cornice, il ricorso a pene severe e a toni ultimativi tradisce però un’altra debolezza: la politicizzazione della tutela. Quando una verità antropologica viene difesa con il linguaggio della vendetta o dell’umiliazione dell’avversario, perde forza persuasiva e si trasforma in strumento di dominio. La protezione dell’infanzia non ha bisogno di eroi muscolari; ha bisogno di leggi sobrie, fondate, proporzionate, capaci di distinguere tra accompagnamento psicologico e interventi irreversibili.

Il punto decisivo resta questo: non tutto ciò che è tecnicamente possibile è antropologicamente lecito. E non tutto ciò che è desiderato è giuridicamente giusto. La legge, in senso pieno, nasce da una gerarchia: divina (per chi crede), eterna(come ordine del reale), naturale (come ragione condivisibile), e solo alla fine positiva (come norma scritta). Invertire questo ordine significa esporre i più fragili alla sperimentazione ideologica.

Se oggi questa evidenza viene difesa solo da chi la usa per colpire l’avversario, il problema non è che la destra abbia ragione: è che il progressismo ha smesso di pensare. Ha confuso l’empatia con l’acquiescenza, la cura con la conferma, l’inclusione con la sospensione di ogni giudizio sulla realtà corporea.

La vera sfida non è scegliere una bandiera, ma restituire il tema alla sua gravità umana. Proteggere i minori non è un atto di potere; è un dovere di civiltà. E una civiltà che ha bisogno di bulli per difendere l’ovvio ha già perso il senso della legge.