Il 24 maggio ci richiama ogni anno al sacrificio e alla speranza. Tra trincee e altari, generali ed eroi sconosciuti, la battaglia del Piave continua a parlare alle nuove generazioni, perché senza memoria non c’è pace né patria.

Il 24 maggio non è una semplice data nel calendario militare italiano: è il giorno in cui la nostra nazione scelse di combattere per la propria libertà, e nel fango del Piave scrisse una delle pagine più dure e decisive della sua storia. A più di un secolo da quel 1915, la memoria di quella scelta interpella ancora il nostro presente: non per glorificare la guerra, ma per ricordare che l’unità, la dignità e la pace sono conquiste che hanno un prezzo, e che la fede ha sempre camminato con gli uomini, anche tra le bombe e i reticolati.

La “prima linea” della storia

Il Piave non è stato solo un fiume. È stato confine, ferita, trincea e infine simbolo della resistenza italiana. Dopo il disastro di Caporetto, nel 1917, fu sulla linea del Piave che l’Italia si ricompattò. Il generale Armando Diaz, nuovo comandante supremo, adottò uno stile meno punitivo e più umano. La sua azione, attenta al morale delle truppe, contribuì in modo decisivo alla vittoria del giugno 1918, quando l’offensiva austro-ungarica fu respinta e l’armata italiana mostrò una rinnovata forza morale.

A fare la storia non furono solo i vertici militari, ma anche i ragazzi del ’99, i giovani appena diciottenni mandati in trincea. Insieme a loro, contadini e operai, soldati del Sud e del Nord, un popolo ancora diviso che imparava a riconoscersi fratelli nella prova.

Tra gli eroi ricordiamo Enrico Toti, che, pur privo di una gamba, combatté con eroismo e lanciò la sua stampella contro il nemico prima di morire. O Ernesto Cabruna, aviatore decorato, che ogni giorno si alzava in volo sul Piave per cercare e trasmettere informazioni vitali. Ma sono migliaia gli eroi senza nome, caduti senza gloria, con nel cuore solo la speranza di tornare.

Cappellani e croci: l’altare nella trincea

In quel dolore collettivo, la fede non venne meno. Don Giovanni Minzoni, che sarebbe poi stato assassinato dal fascismo, fu cappellano al fronte e lasciò lettere piene di carità e umanità. Scriveva: “Sono qui per dare Dio a chi ha solo paura e fango”. A San Donà di Piave, dove ancora si conserva una cappella di trincea, si celebravano messe con altari improvvisati, tra le munizioni e il silenzio teso dell’attesa.

Molti cappellani militari furono padri, medici, confessori, fratelli. Tra loro, anche padre Reginaldo Giuliani, domenicano, che morì in battaglia seguendo i suoi soldati. E, in tempi più vicini, fu proprio l’esperienza della guerra sul fronte russo a segnare per sempre don Carlo Gnocchi, che da cappellano degli alpini trasformò l’orrore della guerra in un’opera di misericordia: l’Opera Pro Juventute, dedicata ai bambini mutilati, orfani e ai piccoli “mutilatini”, testimoniava che il male non ha l’ultima parola se lo si affronta con il Vangelo nel cuore.

Non solo una memoria: un appello per oggi

Celebrare oggi il 24 maggio significa anche interrogarsi sul nostro tempo. In un’Europa ancora attraversata da guerre e minacce di nuove divisioni, la lezione del Piave diventa un appello alla responsabilità. L’unità nazionale non può essere fondata sulla retorica o sulla paura dell’altro, ma sulla giustizia, sull’inclusione, sulla memoria del sacrificio condiviso.

Come ha ricordato Papa Francesco nel centenario della fine del conflitto: “La pace è il vero nome della giustizia e la giustizia è la condizione della pace”. E oggi Leone XIV, figlio di migranti e pastore della Chiesa universale, continua questa eredità con un magistero che rifiuta ogni nazionalismo egoista, richiamando le nazioni alla fraternità e al disarmo.

Un fiume che continua a mormorare

“Il Piave mormorava…” diceva la canzone. E mormora ancora, ma non più il rumore delle artiglierie. Mormora un ammonimento: senza memoria non c’è futuro, senza giustizia non c’è vera pace. Quei soldati non morirono per la gloria, ma per lasciarci un Paese da costruire insieme, giorno dopo giorno, in pace.

Il 24 maggio, allora, non è soltanto la memoria di una battaglia vinta, ma il ricordo di una nazione riscattata dal dolore, e il segno di una speranza cristiana che, anche nel buio della storia, sa trovare la luce della risurrezione.