Dopo Dolan, New York cambia tono: perché Leone XIV guarda oltre il trumpismo ecclesiale
La mancata proroga del cardinale Timothy Dolan e la nomina di monsignor Ronald Aldon Hicks a New York non sono un semplice passaggio anagrafico previsto dal diritto canonico. Sono un segnale politico-pastorale preciso di Papa Leone XIV: voltare pagina rispetto a un cattolicesimo troppo allineato al trumpismo culturale e avviare una stagione meno polarizzata, più sociale e più evangelica, nella diocesi simbolo degli Stati Uniti.
A New York nulla è mai solo amministrativo. Men che meno la scelta dell’arcivescovo. Formalmente, Timothy Michael Dolan esce di scena per raggiunti limiti di età; sostanzialmente, la decisione di Leone XIV di non concedergli una proroga — pratica tutt’altro che rara per sedi di questo peso — racconta una precisa volontà di discontinuità. Non una sfiducia personale, non una resa dei conti, ma la fine di una stagione ecclesiale che ha confuso visibilità con profezia e influenza con Vangelo.
Dolan ha incarnato per anni il volto più presentabile di un cattolicesimo identitario, mediaticamente efficace, spesso sorridente, ma strutturalmente compatibile con il trumpismo culturale. Non un ideologo, piuttosto un abile equilibrista: capace di benedire l’ordine costituito, di difendere valori non negoziabili, di frequentare il potere senza mai metterlo davvero in crisi. Un cattolicesimo “civile”, patriottico, rassicurante, che negli anni di Trump ha preferito la prossimità al conflitto, la prudenza al discernimento, il silenzio all’inquietudine evangelica.
Papa Leone XIV, che la Chiesa americana la conosce dall’interno e ne ha sperimentato le fratture, sceglie consapevolmente di non prolungare quella linea. Accettare le dimissioni di Dolan senza deroghe significa dire che l’episcopato non può più essere una zona franca tra Vangelo e potere, né un luogo di ambiguità beneducata. È un atto sobrio, ma netto.
La scelta di Ronald Aldon Hicks va letta dentro questa cornice. Non è un vescovo “contro” qualcuno, né un simbolo di rivincita ideologica. È, piuttosto, l’indicazione di un altro baricentro. Pastore prima che comunicatore, formatore prima che stratega, uomo di Chiesa più che figura pubblica. La sua biografia non parla il linguaggio degli slogan, ma quello delle periferie: la formazione presbiterale, la responsabilità amministrativa, gli anni decisivi in America Centrale accanto ai bambini orfani di Nuestros Pequeños Hermanos. Esperienze che non decorano un curriculum, ma plasmano uno sguardo.
New York è una diocesi-mondo: pluralità culturale, migrazioni, diseguaglianze, ferite sociali profonde. Governarla con la grammatica dello scontro culturale sarebbe miope. Hicks arriva con un lessico diverso: ascolto, tutela dei fragili, ricomposizione, pace. Non a caso il suo motto episcopale è francescano, Paz y Bien. Parole che negli Stati Uniti di oggi suonano quasi sovversive.
C’è poi un elemento simbolicamente potente: la prossimità biografica e spirituale con Leone XIV. Cresciuti negli stessi quartieri di Chicago, segnati entrambi dall’esperienza latinoamericana, condividono un’idea di Chiesa che non coincide con nessuna agenda partitica. È la Chiesa che Francesco aveva rimesso al centro: meno ossessionata dalla difesa identitaria, più concentrata sulla carne ferita delle persone. Leone XIV non fa che raccogliere e rilanciare quella eredità, traducendola in scelte concrete.
La nomina di Hicks parla anche alla politica americana, senza proclami. Dice che Roma non intende più offrire sponde, nemmeno indirette, a un cristianesimo ridotto a brand culturale o a strumento di legittimazione del potere. Dopo anni di flirt tra una parte dell’episcopato e la radicalizzazione ideologica, New York diventa il laboratorio di una Chiesa che abbassa i toni senza abbassare il Vangelo.
Il passaggio da Dolan a Hicks non è uno scontro di personalità, ma un cambio di paradigma. Meno cappellani del potere, più pastori nelle ferite della città. Meno cattolicesimo da palcoscenico, più Chiesa che cammina con gli ultimi. In un tempo di leader che urlano e comunità tentate dal megafono, Leone XIV scommette su una voce più bassa. Proprio per questo, forse, più autorevole.
