Negli ultimi anni, in varie parti del mondo occidentale, è cresciuto un fenomeno che suscita non poche preoccupazioni: il cosiddetto nazionalismo cristiano. Non si tratta della naturale e legittima presenza della fede nello spazio pubblico, che appartiene al diritto e alla missione dei cristiani nella società. Si tratta piuttosto di un’ideologia che confonde l’identità cristiana con l’identità nazionale, e pretende di fondare l’ordine politico sulla supremazia di una religione, trasformando il Vangelo in strumento di potere.

È essenziale distinguere. La fede cristiana, quando entra nella piazza pubblica, porta frutti di libertà e di giustizia. La storia lo dimostra: dagli abolizionisti che combattevano la schiavitù, ai pastori che guidarono il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti. In questi casi la Parola di Dio non è stata arma di esclusione, ma forza di liberazione. Il nazionalismo cristiano, invece, tradisce questa dinamica evangelica. Esso afferma che solo i cristiani dovrebbero governare, che le istituzioni dovrebbero essere “radicate” nella religione dominante, relegando gli altri — credenti di altre fedi o non credenti — a cittadini di seconda categoria.

Qui sta la contraddizione radicale con il Vangelo. Cristo non ha mai predicato una comunità costruita sull’identità etnica o religiosa come criterio di cittadinanza, ma sul dono universale dell’amore. Il suo Regno «non è di questo mondo» (Gv 18,36): non si impone con le leggi di maggioranza o con l’egemonia culturale, ma si testimonia con il servizio e la misericordia.

Il nazionalismo cristiano nasce da una paura: la percezione di essere minoranza in una cultura segnata da altri valori. Ma la risposta cristiana non può essere l’imposizione, bensì la testimonianza. Dove il Vangelo viene ridotto a bandiera di partito, il cristianesimo perde la sua forza profetica. Dove la fede diventa criterio di esclusione, essa cessa di essere fede nel Dio che «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni» (Mt 5,45).

Non bisogna, tuttavia, confondere questo fenomeno con la legittima voce dei cristiani nella vita pubblica. Il problema non è la partecipazione, ma la pretesa di supremazia. Una democrazia autentica si arricchisce quando le diverse tradizioni religiose e secolari dialogano, si ascoltano e si rispettano. La tentazione nazionalista, al contrario, divide, esaspera la logica amico-nemico e può giungere a giustificare la violenza, come è accaduto in eventi drammatici nella storia recente.

La Chiesa, fedele al suo Signore, non può che ribadire con chiarezza: nessun progetto politico può appropriarsi del Vangelo per i propri fini. La fede è fermento, non dominio; è sale, non apparato di potere. Nel momento in cui diventa ideologia nazionale, essa tradisce se stessa e si allontana da Cristo crocifisso e risorto, che si è fatto servo di tutti.

La sfida oggi è dunque duplice: da un lato, respingere le derive del nazionalismo cristiano che minacciano la coesione sociale e la testimonianza evangelica; dall’altro, incoraggiare una presenza dei credenti nella vita pubblica che sia segno di fraternità, promotrice di dialogo, voce per i poveri e gli esclusi. Non una fede che esclude, ma una fede che apre; non una fede che impone, ma una fede che invita.

Il cristiano che si fa nazionalista tradisce la radicalità universale del Vangelo. Il cristiano che si fa testimone, invece, diventa costruttore di pace.