L’attacco israeliano all’Iran, iniziato senza un via libera ufficiale da parte degli Stati Uniti ma sotto l’occhio complice dell’intelligence americana, segna un punto di svolta nella relazione strategica tra Tel Aviv e Washington. Al centro di questa escalation, due figure: Benjamin Netanyahu, risoluto nel portare avanti il suo disegno di neutralizzazione del programma nucleare iraniano, e Donald Trump, presidente riluttante trasformato in co-belligerante.
Dietro l’apparente improvvisazione dei fatti si cela in realtà una lunga incubazione: più di un decennio di ammonimenti israeliani, strategie differite, rinvii tattici e crisi congelate. Ma questa volta, come hanno rilevato con sorpresa le agenzie di intelligence americane, Netanyahu era davvero pronto a colpire. E lo avrebbe fatto da solo, se necessario.
La diplomazia come alibi, l’intelligence come leva
Trump aveva provato — quasi ossessivamente — a ottenere un accordo con l’Iran. Si era spinto fino a scrivere una lettera personale all’Ayatollah Khamenei, riproponendosi di ottenere ciò che Obama non aveva saputo concludere: un’intesa sul nucleare, ma alle sue condizioni.
Ma la diplomazia, in Medio Oriente, spesso funziona come cortina di fumo. Mentre l’inviato Witkoff mediava a Muscat, Israele preparava da mesi l’infrastruttura per un attacco su larga scala: non più una singola incursione su Fordo, ma una campagna multipiattaforma potenzialmente orientata al cambio di regime. La scommessa di Netanyahu era chiara: creare i fatti sul terreno e costringere gli Stati Uniti a seguirlo.
Trump, inizialmente scettico, ha vacillato. In pubblico ha esitato, in privato ha pianificato. In fondo, era già stato avvisato: “Bibi lo farà comunque.” La soglia dell’unilateralismo israeliano, già varcata sul piano operativo, è stata poi legittimata con l’appoggio discreto della CIA e la promessa implicita di rifornimenti, intelligence e — se necessario — copertura aerea.
La fine della dissuasione: quando l’alleato agisce come un egemone
Per la prima volta dagli anni ‘80, gli Stati Uniti non hanno esercitato un veto reale sull’iniziativa militare israeliana. È una cesura storica. Perché Washington, pur restando la superpotenza egemone, ha dimostrato di non saper più contenere le pulsioni del proprio alleato strategico in Medio Oriente.
Non si è trattato di una cessione formale di leadership, ma di una deresponsabilizzazione mascherata: lasciar fare a Israele per poi valutare i risultati. È la logica dell’egemone stanco, che trasforma i proxy in protagonisti e i partner in detonatori. Una strategia di controllo post-fattuale, dove l’intelligence precede la diplomazia e l’inazione diventa azione implicita.
In questa dinamica, Netanyahu si è comportato non come un alleato subordinato, ma come un attore che detta le condizioni. Non è un caso che Trump, pur contrariato, alla fine abbia detto ai suoi consiglieri: “Penso che potremmo doverlo aiutare”. Il potere, ormai, non stava più a Washington. Era stato traslato a Gerusalemme.
Trump tra dottrina Carlson e realpolitik Bibi
Il vero dilemma non è stato militare, ma politico. Trump è stretto tra due anime del suo movimento: quella interventista-pro-Israele, egemonizzata da figure come Rubio, Hegseth e Levin, e quella isolazionista-populista, capeggiata mediaticamente da Tucker Carlson.
Nel primo mandato aveva cercato di equilibrare le due correnti, usando la retorica anti-guerra per disinnescare le pressioni neocon. Ma ora, nel secondo, la struttura decisionale si è fatta più fedele che competente. La “lealtà” ha sostituito la “dissidenza leale”. La macchina presidenziale non frena più, accompagna.
Ciò spiega perché, pur partito con l’intenzione di raggiungere un’intesa diplomatica, Trump sia passato nell’arco di poche ore — dopo il successo mediatico dei bombardamenti israeliani — a considerare seriamente l’invio dei B-2 con le bunker buster. È la sindrome dell’imprinting Fox News: se la guerra va in diretta e sembra vincente, non puoi più chiamarti fuori.
Dalla strategia del contenimento all’era del condizionamento inverso
Nel dopoguerra, gli Stati Uniti hanno sempre tentato di condizionare le scelte di Israele — con aiuti, deterrenza diplomatica, minacce implicite. Con Netanyahu, e soprattutto con un Trump meno assertivo di quanto appaia, si è passati a uno schema rovesciato: è Israele a condizionare l’agenda americana.
Il caso iraniano è emblematico. Non esiste, oggi, una prova concreta che l’Iran stesse per completare l’arma nucleare. Nonostante ciò, Israele ha agito preventivamente, invocando un principio di sicurezza esistenziale che, nella narrazione geopolitica israeliana, non ha bisogno di essere dimostrato, ma solo affermato.
E questa affermazione, oggi, basta a innescare l’azione — anche americana. Non perché l’Iran abbia fatto qualcosa, ma perché Israele ha deciso che non fare nulla sarebbe stato troppo rischioso. In questa logica, Netanyahu ha trasformato la percezione del rischio in leva di politica estera globale.
La vera guerra è tra realtà e rappresentazione
La guerra in corso tra Israele e Iran, con il supporto fluttuante degli Stati Uniti, è anche uno scontro di narrazioni. Il “genio militare” esaltato dai media, la minaccia nucleare mai provata, l’effetto domino invocato per ogni escalation.
Trump, da maestro della rappresentazione, è entrato nel gioco. Ma da giocatore reattivo. Ha smesso di guidare la strategia, affidandosi all’inerzia degli eventi. Il vertice del G7 abbandonato di corsa, la lettera a Khamenei sventolata come trofeo mancato, le telefonate con Netanyahu trasformate in resoconti semi-epici da retrovia.
L’America che aspira a non intervenire ma finisce col sostenere è la fotografia di un ordine in transizione. Non più unipolare, non ancora multipolare. In questo interregno, l’azione si sposta verso attori come Israele, capaci di usare la propria vulnerabilità strategica come arma di pressione sistemica.
L’egemone decentrato
Quello che è accaduto non è solo l’inizio di una guerra asimmetrica. È la consacrazione di una nuova forma di potere: l’egemone decentrato, che non comanda, ma legittima a posteriori; che non decide, ma ratifica; che non costruisce alleanze, ma si adatta alle iniziative degli alleati più determinati.
In questo scenario, Netanyahu ha vinto la sua battaglia strategica: ha portato l’Iran sotto attacco e gli Stati Uniti al suo fianco. Trump, invece, ha perso l’iniziativa, ma salvato la faccia. Una vittoria a metà, forse sufficiente per la politica interna, ma gravida di conseguenze globali.
Perché se anche domani venisse raggiunta una tregua, il messaggio è ormai lanciato: chi agisce per primo, detta le regole. E nell’Occidente del XXI secolo, non è detto che sia sempre Washington.