Nel silenzio del mondo, soffocato da guerre più mediatiche e crisi geopolitiche di prima fascia, il Sudan continua a morire. Una morte lenta, invisibile, che ha appena segnato una nuova e tragica tappa: la prima vittima tra il clero cattolico da quando, il 15 aprile 2023, è esploso il conflitto tra l’esercito regolare e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (RSF). Si chiamava don Luka Jumu, 55 anni, parroco di Nostra Signora Aiuto dei Cristiani a El Fasher, capitale del Darfur Settentrionale, ultima roccaforte governativa in una regione ormai in mano alle milizie. È morto dopo essere stato colpito da un ordigno esploso nella casa parrocchiale, nella notte del 13 giugno, durante un attacco delle RSF. Con lui, due giovani ancora senza nome.
La notizia è arrivata dapprima attraverso il vescovo di El Obeid, mons. Yunan Tombe, presidente della Conferenza episcopale del Sudan e del Sud Sudan, che aveva informato della gravità delle ferite di don Jumu. Qualche ora dopo, la conferma della sua morte. «Con profondo dolore – ha scritto il vescovo – vi informo che questa mattina abbiamo ricevuto la notizia della scomparsa del carissimo padre Luke. Che la sua anima riposi in pace».
Ma non c’è pace in Sudan. E non c’è pace neanche per la Chiesa, rimasta – nonostante tutto – tra la sua gente. A El Fasher, nonostante le evacuazioni, restavano ancora 300 famiglie cristiane. Don Luka era lì con loro. Non ha voluto fuggire, pur potendolo fare mesi fa. «Era impossibile», raccontano da mesi fonti locali. El Fasher è accerchiata da quasi due anni. Le richieste ONU di corridoi umanitari sono rimaste lettera morta. Le RSF respingono aiuti e bombardano i campi per sfollati, come quelli di Zamzam e Abou Shouk, rasi al suolo in aprile. Da lì sono fuggite centinaia di migliaia di persone, attraversando il confine con il Ciad, dove oggi si sta consumando un’altra emergenza: la sete, la fame, il colera, l’abbandono.
Uno scenario apocalittico
Secondo l’Ufficio ONU per gli affari umanitari (OCHA), sono oltre 850.000 i rifugiati sudanesi fuggiti in Ciad dall’inizio della guerra, aggiungendosi ai 400.000 già presenti. Oltre 300.000 sono bloccati in condizioni disumane nelle zone di frontiera. Il colera ha già colpito 13 stati sudanesi, con almeno 1.854 morti, e i finanziamenti internazionali per far fronte alla crisi restano tragicamente insufficienti: solo il 9,3% dei fondi richiesti è stato raccolto.
E nel frattempo, nel silenzio globale, anche la Chiesa è sotto assedio. Non solo a El Fasher. A El Obeid, capitale del Kordofan Settentrionale, l’esercito è circondato dalle RSF. Il vescovo Yunan Tombe è rimasto l’unico presule in diocesi, assistito da appena tre sacerdoti. Le missioni comboniane sono state evacuate un anno fa. Nel novembre scorso, lo stesso vescovo e un diacono sono stati aggrediti. La Chiesa, in Sudan, non ha mezzi, non ha protezione, non ha voce. Eppure continua ad esserci, nelle sue figure più umili, come don Luka, che ha scelto di restare.
Il Sud del mondo fuori dall’inquadratura
Ci si interroga spesso su quale sia il posto della Chiesa nei conflitti del Sud globale. La morte di don Luka risponde in modo chiaro: è là dove nessuno vuole più stare. Dove la comunità internazionale ha rinunciato anche alla compassione. Dove i riflettori si accendono solo se lo fa un Papa. Ed è stato proprio Papa Leone XIV, all’Angelus di domenica 15 giugno, a ricordare don Luka, pregando per lui, per le vittime del conflitto e chiedendo, ancora una volta, pace e dialogo. Un gesto profetico e necessario per un Paese martoriato che produce oro, ma non ha pane.
Il Sudan è il terzo produttore di oro dell’Africa, eppure il 71% della popolazione vive oggi con meno di 2,15 dollari al giorno, secondo la Banca mondiale. Un crollo verticale: nel 2022 la percentuale era del 33%. Le cause? Oltre ai saccheggi, alle violenze e al caos, anche la distruzione sistematica dell’agricoltura da parte delle milizie. Il cibo non si produce più. La fame è la nuova arma.
Il sangue e l’oro
La morte di un sacerdote come don Luka non è solo una tragedia personale o ecclesiale: è un simbolo. Un martire del popolo. Uno dei pochi punti di riferimento rimasti in mezzo al caos. Il suo corpo spezzato parla di una Chiesa che condivide il destino degli ultimi. E denuncia un mondo che guarda altrove. Un mondo che si scandalizza per l’oro di sangue di altri conflitti, ma accetta in silenzio che il Darfur sia ancora oggi un laboratorio di pulizia etnica, fame e rapina.
Nel Sud del mondo, troppo spesso, anche la morte non fa rumore. Per questo la voce del vescovo Tombe, la testimonianza di padre Abdallah Hussein, le urla dei rifugiati in Ciad, i bambini senza acqua, devono arrivare fin qui. Devono farci alzare lo sguardo. E accendere di nuovo i riflettori su una guerra che nessuno vuole raccontare.
Don Luka Jumu è morto. Ma non è stato ucciso solo da una bomba. È stato ucciso anche dall’indifferenza.