Il popolo dimenticato che insegna la democrazia
Nel Medio Oriente dei muri e delle frontiere tracciate dal petrolio, c’è un popolo di 40 milioni di persone che continua a cercare la pace non con la forza ma con la democrazia: i curdi. Una nazione senza Stato, dispersa tra Turchia, Siria, Iraq, Iran e Libano, che ha pagato con il sangue la propria fedeltà ai valori di libertà, parità e autodeterminazione. Eppure, paradossalmente, il loro esempio rappresenta oggi una delle poche speranze concrete di pluralismo nella regione.
Dalla resistenza all’autogoverno
In un’area segnata da regimi autoritari e derive fondamentaliste, le esperienze di autogoverno curdo – dal Rojava siriano alle comunità di Qandil, fino ai quartieri curdi di Beirut, eredi della diaspora dei decenni passati – mostrano una concezione di democrazia radicale e partecipata: parità di genere, tutela delle minoranze, economia cooperativa, ecologia integrale.
Non una rivoluzione ideologica, ma un laboratorio civile nato dal basso, spesso sotto le bombe.
Come scriveva Abdullah Öcalan, leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), oggi detenuto da venticinque anni in isolamento sull’isola di Imrali:
“La libertà non si conquista prendendo il potere, ma costruendo relazioni di uguaglianza dentro la società.”
Il PKK, da tempo, ha rinunciato alla lotta armata, puntando sulla via politica e culturale.
Eppure continua a essere etichettato come “terrorista” da una parte della comunità internazionale – un marchio che non tiene più, alla luce dei fatti.
Furono proprio i curdi, infatti, a guidare la resistenza militare contro l’ISIS, difendendo Kobane e liberando centinaia di migliaia di civili quando le grandi potenze esitavano.
Poi, come troppe volte nella loro storia, furono abbandonati.
La memoria di un genocidio dimenticato
La miopia dell’Occidente verso la causa curda si intreccia con una rimozione ancora più profonda: il genocidio armeno del 1915.
Una tragedia che molti curdi, allora, subirono e di cui altri furono usati come strumenti.
La Turchia moderna – nata su quelle rovine – non ha mai fatto i conti fino in fondo con quella colpa collettiva, e ancora oggi ne proietta l’ombra nella negazione dei diritti curdi.
È una ferita aperta: Ankara continua a considerare ogni forma di autonomia curda come una minaccia all’unità nazionale, e risponde con la repressione, gli arresti, i bombardamenti.
Ma questa politica del muro e dello sterminio non può durare.
Nessun equilibrio geopolitico fondato sulla negazione di un popolo è destinato a reggere.
Non può esserci pace nel Mediterraneo finché milioni di curdi resteranno invisibili.
Oltre il binarismo: un Medio Oriente multipolare
Un eventuale riconoscimento di uno Stato o di una confederazione curda autonoma non minaccerebbe l’ordine regionale: lo riequilibrerebbe.
La nascita di un’entità curda democratica romperebbe l’alternativa rigida tra Israele e mondo arabo, aprendo la via a un nuovo multipolarismo della regione, fondato sul dialogo e non sull’antagonismo.
I curdi potrebbero essere, come qualcuno li ha chiamati, “il terzo polo morale” del Medio Oriente: quello che unisce, non divide.
È questo il nodo che la comunità internazionale continua a ignorare.
Si preferisce sostenere alleati autoritari per convenienza strategica, accettando che la Turchia – “membro della NATO” – continui una guerra silenziosa contro i curdi, violando sistematicamente i diritti umani.
Ma la democrazia non si difende con le armi, bensì riconoscendo chi la pratica.
Žižek e la sfida dell’universalità
Il filosofo Slavoj Žižek, che pure non è tenero con le ideologie dell’Occidente, ha scritto che “la vera universalità nasce dove una minoranza lotta per qualcosa che vale per tutti”.
Ecco perché la causa curda non è un problema regionale, ma una questione universale.
Quando un popolo perseguitato sceglie la via del dialogo invece della vendetta, della parità invece della supremazia, allora diventa un segno di civiltà globale.
In un mondo che torna a dividersi in blocchi e muri, i curdi ci ricordano che la vera forza politica è quella che nasce dal dolore trasformato in speranza.
La politica del muro non è una strategia, è una condanna
Fino a quando potrà durare la politica del muro, del silenzio, dello sterminio mascherato da sicurezza?
Ogni bomba sganciata sul Kurdistan – o su una sua diaspora, da Beirut al Rojava – è un colpo inferto non solo a un popolo, ma a un’idea di libertà che riguarda anche noi.
Perché la democrazia non è un bene nazionale, ma una responsabilità comune.
Il popolo curdo – perseguitato, disperso, ma mai sconfitto – resta un appello alla coscienza mondiale:
la pace non nasce dal dominio, ma dal riconoscimento reciproco.
E se l’Europa e il mondo libero non sapranno ascoltarlo, rischieranno di perdere proprio ciò che dicono di difendere.
“Un popolo che continua a lottare per la libertà, anche quando il mondo lo dimentica, non è un residuo del passato. È un anticipo del futuro