La creazione di un nemico e di una paura infondata sono da secoli strumenti per politiche disumane

Negli ultimi mesi una parola d’ordine, fino a poco tempo fa confinata ai margini dell’estremismo identitario, è entrata con sorprendente naturalezza nel linguaggio politico occidentale: reimmigrazione. Dietro l’apparente neutralità del termine si agita però un’idea ben più radicale, alimentata dal fantasma della “sostituzione etnica”, una narrazione che trasforma il cambiamento demografico in complotto e la convivenza in minaccia. Un’ideologia che seduce perché semplifica, e che proprio per questo merita di essere guardata senza paura, ma con lucidità.

C’è una parola che negli ultimi anni ha lasciato i margini del dibattito estremista per affacciarsi, con crescente disinvoltura, nei discorsi politici ufficiali: reimmigrazione. A prima vista sembra un termine tecnico, quasi neutro. In realtà, è una parola-carica, che porta con sé una visione del mondo precisa e inquieta.

Nel suo significato elementare, la reimmigrazione indica il ritorno volontario di una persona nel Paese d’origine. È un fenomeno umano, antico, persino naturale. Il problema nasce quando questo concetto viene sottratto alla dimensione personale e trasformato in ideologia, in progetto politico fondato non sui diritti, ma sull’identità etnica.

Qui entra in scena un nome chiave: Renaud Camus. Scrittore francese, Camus ha dato forma teorica a una narrazione che oggi attraversa gran parte dei movimenti identitari occidentali: la teoria della Grande Sostituzione. Secondo questa visione, le élite politiche, economiche e culturali starebbero favorendo una sostituzione demografica delle popolazioni europee e occidentali — bianche, cristiane, autoctone — con popolazioni non bianche, spesso musulmane, attraverso l’immigrazione di massa. Camus parla di una sorta di “genocidio per sostituzione”, non violento nelle forme, ma radicale negli esiti.

Questa teoria, ampiamente smentita sul piano scientifico e demografico, ha però un’enorme forza simbolica. Trasforma il cambiamento in complotto, la pluralità in minaccia, la convivenza in invasione. Ed è proprio qui che la reimmigrazione diventa, per i suoi sostenitori, la risposta politica alla profezia di Camus: se c’è una “sostituzione”, allora occorre invertire il processo, “rimandare indietro”, ristabilire una presunta purezza originaria.

In questa cornice, la cittadinanza non è più un fatto giuridico, ma biologico; non si fonda sull’adesione a una Costituzione, ma sull’appartenenza a una stirpe. L’americano, l’europeo, l’occidentale “vero” non è chi rispetta le leggi e condivide i valori civili, ma chi può vantare una certa genealogia. È un’idea che contraddice frontalmente la tradizione democratica moderna, nata proprio per emancipare la politica dal sangue e dalla razza.

Non è un caso che alcuni esponenti politici contemporanei — anche ai massimi livelli istituzionali — abbiano iniziato a usare il linguaggio della reimmigrazione come se fosse una semplice opzione amministrativa. Così facendo, ciò che nasce come teoria letteraria e ossessione culturale diventa proposta di governo. Il passaggio è sottile, ma decisivo: dalla paura raccontata alla paura normata.

Eppure, esiste un’altra idea di nazione, più sobria e più esigente: quella civica e costituzionale. In questa prospettiva, una comunità politica non è un’eredità immutabile, ma un patto sempre da rinnovare. L’identità non è un fossile da proteggere, ma una realtà viva, capace di trasformarsi senza dissolversi. Qui il ritorno nel Paese d’origine può essere una scelta libera, sostenuta da politiche di cooperazione e sviluppo, ma non diventa mai uno strumento di esclusione collettiva né, tantomeno, un progetto di ingegneria etnica.

La storia europea dovrebbe renderci prudenti. Ogni volta che si è tentato di “salvare” una civiltà eliminando la diversità, il risultato non è stato il rafforzamento della società, ma la sua brutalizzazione. Le ideologie della purezza promettono ordine, ma producono violenza; promettono identità, ma generano paura permanente.

Alla fine, la questione non è migratoria, ma profondamente politica e morale. La Grande Sostituzione di Camus non descrive ciò che accade nelle società occidentali: descrive il modo in cui una parte di esse guarda al futuro, con angoscia e nostalgia. La reimmigrazione, come ideologia, non è una soluzione: è il tentativo di fermare il tempo, di cancellare la complessità, di rispondere al cambiamento con l’espulsione.

La vera alternativa non sta nel negare i problemi, ma nel rifiutare le scorciatoie identitarie. Una democrazia non si misura dalla sua capacità di escludere, ma dalla sua forza nel tenere insieme differenze senza rinunciare ai propri principi. Tutto il resto — per quanto vestito di parole nuove — è già storia conosciuta.