L’orrore del killer delle escort romene
C’è un campo, a Montecatini Terme, che la cronaca ha ormai ribattezzato “il campo degli orrori”. Lì, sotto la terra smossa, si cercano ossa e verità. Ci si china tra ciocche di capelli, slip sepolti e vertebre umane, non per cercare prove, ma perché c’è un intero sistema di menzogne da dissotterrare. Non siamo solo di fronte a un omicida solitario, Vasile Frumuzache, ma forse dinanzi al volto più oscuro e strutturato della violenza: quella organizzata, sistematica, transnazionale. Una rete che sfrutta, controlla, elimina.
Il reo confesso, l’assassino delle giovani Maria Denisa Paun e Ana Maria Andrei, potrebbe essere stato solo l’ultimo anello, il boia. Il braccio terminale di un sistema più grande che riduce le donne a carne da consumo, da vendere e — quando non servono più — da seppellire. Ed è qui che il fatto di cronaca diventa segno dei tempi, dramma collettivo, interpellanza spirituale e sociale per tutti.
Queste morti ci chiedono: che cosa cerca davvero un cliente? Dietro la richiesta di compagnia, dietro il pagamento per una prestazione, spesso c’è il desiderio inconfessato di dominio, di sottomissione, di possesso. Non si tratta solo di “incontri” tra adulti consenzienti, ma della spia di un malessere profondo: l’illusione che tutto possa essere comprato, anche l’intimità, anche l’umano. In certi casi, anche il diritto di infliggere dolore.
La Dottrina Sociale della Chiesa parla chiaro: nessun essere umano è merce. Nessun corpo può essere ridotto a oggetto d’uso. La prostituzione — anche se regolamentata, anche se volontaria — resta una ferita alla dignità della persona, una forma di violenza strutturale. La Chiesa lo ha sempre detto: non si emancipa nessuno rendendo legale lo sfruttamento, non si protegge una donna stabilendo un prezzo per il suo corpo.
Il caso di Montecatini ci insegna che regolamentare il “sex work” non basta, e forse è proprio sbagliato il presupposto. Perché l’uomo che paga non sta semplicemente acquistando un servizio: in molti casi, acquista il diritto a non riconoscere l’altro come persona. Come ha scritto Rachel Moran, attivista e sopravvissuta alla prostituzione, “il cliente è, nella sua essenza, uno stupratore che paga per l’impunità”. Parole forti? Sì, ma necessarie per svegliarci dall’assuefazione.
Possiamo anche illuderci che esistano “escort felici”, transazioni consensuali, donne libere. Ma quando l’eccezione diventa alibi per nascondere la regola, la nostra coscienza si addormenta. E in quel sonno, altri Frumuzache trovano spazio per agire. Il problema non è solo il killer, ma il sistema che lo ha reso possibile, il mercato che lo ha formato, la cultura che lo ha giustificato.
Serve un cambiamento di sguardo. Dalla fascinazione per la trasgressione al rispetto per l’inviolabilità della persona. Dalla narrazione patinata delle “sex workers” alla consapevolezza che ogni corpo offerto in vendita è un grido — silenzioso ma reale — di aiuto.
E serve anche una parola di misericordia: per le vittime, certo, ma anche per chi — uomo o donna — si ritrova prigioniero o complice di questi meccanismi. Nessuno è irredimibile. Ma la redenzione comincia quando smettiamo di chiamare libertà ciò che è schiavitù, e di mascherare da scelta ciò che è solo disperazione.
Nel campo degli orrori, oltre ai resti, giace anche una domanda che non possiamo ignorare: quanti altri corpi dovranno essere sepolti prima che la nostra società riconosca che la prostituzione non è un lavoro, ma una forma di violenza — legalizzata o meno — contro i poveri, le donne, i fragili?
E forse anche contro la nostra stessa umanità.