Il furto del secolo merita u racconto romanzato per rispolverare il mito del ladro del secolo: Arsenio Lupin
Non c’era luna, ma Parigi brillava lo stesso. Il Louvre dormiva sotto la sua cupola di vetro, le luci spente, i passi dei guardiani che riecheggiavano come un respiro antico. Poi, alle 9.28 del mattino del 19 ottobre 2025, la quiete si è incrinata. È durata sette minuti.
Sette minuti che la Francia non dimenticherà.
Perché in quel tempo sospeso tra un cambio di turno e l’apertura ufficiale, quattro uomini travestiti da operai hanno scritto la nuova leggenda del furto perfetto.
Una piattaforma elevatrice accostata alla facciata sul lato della Senna, un taglio preciso sulla finestra della Galerie d’Apollon, un varco che sembrava disegnato col compasso.
Nessun allarme, nessuna corsa. Solo movimenti rapidi, sincronizzati.
Come un balletto studiato da mesi.
Dentro, le luci d’emergenza dipingevano l’oro dei gioielli reali.
Corone di Napoleone, diademi di regine, collane di zaffiri e perle che avevano attraversato secoli di rivoluzioni.
Il tempo di rompere due vetrine, riempire tre borse, lasciare dietro un’unica corona — troppo ingombrante, forse un messaggio — e uscire.
Alle 9.35 il Louvre era di nuovo silenzioso.
Quando l’allarme è suonato, gli uomini erano già scomparsi lungo la Senna, a bordo di due scooter neri.
Gli inquirenti hanno contato otto pezzi mancanti.
Valore stimato: 88 milioni di euro.
Ma la cifra non basta a dire il peso del furto.
Quelle gemme non erano solo ricchezza, erano storia.
Era la memoria di una nazione.
«Un colpo alla Francia», ha detto il ministro degli Interni.
«Un capolavoro di precisione», ha sussurrato, con una punta d’invidia, un vecchio ispettore in pensione che ricordava i colpi di Arsène Lupin.
Chi c’è dietro?
Le ipotesi si moltiplicano come diamanti alla luce di una torcia.
C’è chi parla di un collezionista arabo, ossessionato dai simboli imperiali; chi sospetta una banda dell’Est, specializzata in arte rubata su commissione; e chi, più romanticamente, immagina un Lupin contemporaneo, deciso a restituire ai fantasmi della monarchia un ultimo sussulto di gloria.
Ma chi conosce i musei sa che per colpire così serve molto più del coraggio: serve una mente interna.
Qualcuno che conosce orari, telecamere, punti ciechi.
Qualcuno che ha amato quel luogo abbastanza da tradirlo.
I tecnici hanno trovato attrezzi abbandonati, una scala elettrica, guanti, radio, segni di un lavoro chirurgico.
Tutto studiato.
Eppure, qualcosa tradisce l’emozione.
Come se, nel cuore del colpo, uno di loro avesse esitato.
Come se quella corona lasciata sul pavimento fosse il gesto d’un ladro gentiluomo: non voglio tutto, mi basta l’idea di poterlo fare.
Ora il Louvre è chiuso per un restauro forzato.
La direttrice ha promesso telecamere nuove, vetri antiproiettile, controlli biometrici.
Ma tra le pareti rimane un’eco: quella della sfida tra il genio e la legge.
Qualcuno, a Parigi, giura di aver visto due scooter attraversare il Pont Neuf, con il sole che sorgeva sui tetti e un uomo in giacca grigia che si voltava un istante verso la Senna, come per salutare la città.
Sorrideva.
Forse perché sapeva che Arsenio Lupin non muore mai.
Epilogo.
Il bottino, secondo gli esperti, verrà smontato, le pietre fuse, forse vendute a pezzi tra Dubai e Istanbul.
Oppure resterà nascosto per anni, chiuso in una cassetta segreta, in attesa che qualcuno lo restituisca al mito.
Perché ogni tanto la realtà ha bisogno della leggenda per sentirsi viva.
E quella del colpo del secolo al Louvre è una storia che il mondo, in fondo, voleva ancora raccontare.
