Non si dica, per favore, che è solo gossip. O meglio, lo si dica pure, purché si abbia l’onestà di ammettere che il gossip — sovrano occulto di questo tempo luccicante e marcio — non è un innocuo passatempo, ma una struttura di potere. Un potere che crea carriere, le distrugge, le ricatta, le compra. Un potere che non assolve né condanna: espone. E nel farlo, spesso, corrompe.
Il caso Alfonso Signorini, oggi affidato alla magistratura e alle sue necessarie verifiche, non riguarda soltanto un uomo, né una singola accusa. Riguarda un ecosistema. Un ambiente dello spettacolo che da anni vive in una zona grigia dove successo, desiderio, paura, ambizione e silenzio si mescolano in modo tossico. Un ambiente in cui la frase “meglio famoso che pulito” non è mai stata smentita dai fatti.
Signorini, intellettuale raffinato per formazione e cinico realista per istinto, è stato uno degli interpreti più lucidi di questa mutazione antropologica. Aveva capito — e lo aveva detto — che l’assenza è la vera colpa e l’anonimato la vera morte civile. Da qui la trasformazione dell’informazione in intrattenimento, dell’intrattenimento in ricatto simbolico, della visibilità in moneta. Non più cultura, non più critica, ma gestione dell’immaginario.
Per anni il suo ruolo è stato quello di mediatore tra mondi che non si sarebbero mai parlati apertamente: potere politico, televisione popolare, scandalo, redenzione a comando. Non si trattava solo di raccontare storie, ma di aggiustarle. Di bilanciare immagini, copertine, narrazioni, in modo da rendere digeribile l’indigeribile. Il privato diventava pubblico non per amore di verità, ma per necessità strategica.
In questo senso, il “sistema” non nasce oggi. Oggi, semmai, presenta il conto.
Le accuse — tutte da verificare, tutte da trattare con il rigore che lo Stato di diritto impone — parlano di favori, promesse, allusioni, pressioni. Ma anche se un tribunale dovesse smentire ogni responsabilità personale, resterebbe intatto il problema più grande: un ambiente che rende credibili queste accuse. Un mondo in cui troppi giovani aspiranti artisti sono convinti — spesso a ragione — che il talento non basti, che il merito non paghi, che l’accesso passi da porte laterali e camere private.
Qui il gossip non è più cronaca mondana: è architettura sociale. È il luogo in cui il potere si esercita senza regolamenti, dove tutto è allusione e nulla è scritto, ma tutti capiscono. È la zona franca dove il consenso si compra con la promessa, e il rifiuto si paga con l’oblio.
Giustamente si denuncia la ferocia dei social, il tribunale emotivo che condanna prima dei giudici. Ma sarebbe ipocrita fingere stupore: lo stesso sistema televisivo che oggi invoca garantismo ha costruito fortune sulla gogna, sull’umiliazione pubblica, sulla spettacolarizzazione della fragilità. Il Grande Fratello non è solo un programma: è una metafora. Un luogo dove tutto è visibile e nulla è davvero libero.
C’è poi un’altra deriva, pericolosa e ignobile: l’uso strumentale dell’orientamento sessuale per trasformare un’indagine giudiziaria in una caccia morale. Qui Vladimir Luxuria coglie un punto decisivo: il reato, se c’è, non ha orientamento. La violenza non diventa meno violenza perché chi la compie è omosessuale, né più mostruosa per questo. L’omofobia travestita da indignazione è solo un’altra forma di vigliaccheria.
E tuttavia, sarebbe altrettanto grave usare la denuncia dell’omofobia per oscurare il tema centrale: lo scambio di potere per disponibilità sessuale, reale o presunta, è una piaga strutturale dello spettacolo. Il Me Too ha scalfito la superficie, ma non ha bonificato il sottosuolo. Le dinamiche sono cambiate nei linguaggi, non nei meccanismi.
Il caso Signorini, allora, è uno specchio. Riflette un mondo che ha confuso notorietà con dignità, accesso con valore, visibilità con verità. Un mondo dove il gossip non racconta più il potere: lo esercita. E dove, troppo spesso, chi resta ferito non è chi cade dall’alto, ma chi dal basso aveva creduto che bastasse essere “una persona perbene”.
La giustizia farà il suo corso. Ma l’ambiente dello spettacolo, se non vuole continuare a produrre questi casi come inevitabili sottoprodotti, dovrebbe iniziare a fare ciò che non ama: guardarsi allo specchio senza filtri.
