Il fallimento del quorum nei cinque referendum promossi e sostenuti dal Partito Democratico rappresenta un duro colpo non solo per Elly Schlein, ma per l’intera strategia dell’opposizione progressista. A nulla sono servite le dichiarazioni a caldo che hanno tentato di mascherare la débâcle con una lettura ottimistica dei numeri. I conti, semplicemente, non tornano. E ancor meno torna la narrativa che ha cercato di trasformare una consultazione referendaria in un test di forza contro il governo Meloni. L’elettorato, ancora una volta, ha risposto con un silenzio assordante.

I numeri reali: quando la matematica smentisce la retorica

Secondo il Ministero dell’Interno, l’affluenza ai referendum si è fermata al 29,9%, ben al di sotto del 50% necessario a rendere validi i quesiti. Schlein ha parlato di “14 milioni di elettori”, ma il numero include solo i voti espressi in Italia, ignorando il dato più ampio (e comunque insufficiente) di oltre 15 milioni di votanti tra Italia ed estero. Peggio ancora, ha confuso i voti espressi con i voti favorevoli: i Sì più numerosi – quelli sui quesiti legati al reintegro dei lavoratori – si sono fermati a circa 12,2 milioni, comunque meno dei voti presi dal centrodestra nel 2022 (circa 12,3 milioni). La tanto sbandierata superiorità numerica del consenso ai referendum si dissolve davanti a un semplice fact-checking.

Politicizzare il referendum: un errore fatale

Ma oltre ai numeri, ciò che emerge con chiarezza è l’errore politico di fondo: la strumentalizzazione del referendumcome “spallata” al governo. La narrazione imposta da Schlein ha trasformato quello che avrebbe dovuto essere un esercizio di democrazia diretta su temi concreti (cittadinanza, licenziamenti, contratti a termine) in un plebiscito anti-Meloni. Il risultato? Una polarizzazione che ha rafforzato l’astensione e incentivato la destra a ignorare il voto, rendendo il raggiungimento del quorum impossibile.

Il paradosso del Jobs Act

Inoltre, c’è un’incongruenza politica che il PD fatica ancora a gestire. I quesiti referendari sul lavoro colpivano direttamente alcune misure introdotte con il Jobs Act, una riforma simbolo del governo Renzi, cioè dello stesso centrosinistra. Chiedere oggi di abrogarle senza una seria autocritica è sembrato, agli occhi di molti elettori, un esercizio di contraddizione ideologica. Come fidarsi di chi vuole cancellare – senza spiegarlo – leggi che egli stesso ha scritto?

La complessità non premia

C’è poi un fattore di ordine comunicativo: cinque quesiti sono troppi. La gente semplice, l’elettorato meno ideologizzato, non riesce a seguire i dettagli tecnici di ogni proposta. Mentre il centrodestra ha scelto l’astensione come strategia compatta, il centrosinistra si è lanciato in una campagna confusa e frammentaria. L’elettore medio, spaesato, ha preferito restare a casa.

Alle politiche sarà un’altra partita

Tuttavia, questo flop non deve trarre in inganno: alle elezioni politiche sarà un’altra storia. Lì non ci sarà quorum da raggiungere, e l’astensione colpirà tutti in modo proporzionale. Inoltre, gli italiani – anche quelli più disillusi – dimostrano sempre più spesso una tendenza all’alternanza, anche quando non hanno un progetto chiaro da sostenere. In un Paese dove le idee scarseggiano, si cambia partito per cambiare almeno le poltrone. Se non si possono cambiare le teste, si cambia chi le occupa.

La vera lezione per il PD

La sconfitta referendaria è dunque un boomerang che obbliga il PD a fare i conti con tre verità:

  1. I referendum non si usano per battaglie simboliche contro il governo.
  2. L’identità politica non si ricostruisce a colpi di slogan antichi contro leggi proprie.
  3. Il popolo vuole risposte concrete, non finte mobilitazioni ideologiche.

Se il centrosinistra non riuscirà a costruire una proposta coerente e popolare, rischierà di perdere anche alle prossime politiche, dove non basterà dire “noi siamo contro” per convincere un Paese che ha ormai capito che i giochi di palazzo non portano pane in tavola.

Per ora, di questi referendum restano solo le statistiche, una campagna poco efficace e una classe dirigente che fatica ancora a leggere davvero il sentimento del Paese. E soprattutto, un dato inconfutabile: la gente, stavolta, non c’era.